Vanity Fair (Italy)

AMBRA Io, disordinar­ia

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Sono razzista? Non lo so. Da bambina abitavo in un quartiere periferico di Roma. Non è importante scrivere il nome del luogo, è fondamenta­le oggi ricordare COSA vedevo dal balconcino della cucina dove spesso uscivo per un viaggio a costo zero. La vista sul palazzone di fronte non era un limite che mi separava dagli spazi infiniti che oggi vedo dalle mie finestre, era un panorama unico che ha nutrito pensieri disordinar­i ma sazi.

Potevo VIAGGIARE grazie alle vite degli altri! Occhi sbarrati sulla dirimpetta­ia che puliva cantando canzoni neomelodic­he, le stesse che cantava mia sorella in cameretta, una mamma indiana con due bambini che giocavano seduti con delle microtunic­he tutte colorate, una signora che mi sembrava anzianissi­ma ma aveva solo 65 anni che guardava me guardare lei e desiderare il suo cane, una famiglia di senegalesi che all’ora di pranzo mangiava pasta al pomodoro fuori in loggetta e io che li invidiavo tantissimo. Avevano questa specie di giardino in mattonato rosso che mi faceva pensare a come avremmo potuto star bene anche noi con quello spazio da utilizzare. Ero razzista? Non lo so… A casa mia madre non parlava mai della questione razziale, era infastidit­a da tutti quelli che non facevano parte del nostro nucleo familiare. Suppongo avesse un problema anche con mio padre tanto non sopportava i gruppi sanguigni diversi dal suo.

Traslochia­mo ancora. Altro giro altra vista? NO! O meglio SÌ, altro palazzone altre vite degli altri. Avevo 11 anni e stavo per iniziare le scuole medie. Al piano sottostant­e il mio era arrivata una famiglia di slavi, così composta: il padre operaio collega di lavoro del mio, la madre donna delle pulizie nel nostro quartiere, un lontano zio e lei, SHPRESA!

Io e Shpresa diventammo da subito amiche del cuore. Lei musulmana e io cattolica non praticante, lei «coperta» per questioni di fede io coperta per questioni di padre geloso, lei Ramadan io dieta per non sentirmi fuorigara con la bellezza esposta ovunque, lei che preparava il corredo per sposarsi e aveva la mia età e io che sognavo di farlo e speravo che mio padre non s’incazzasse! Era più bella casa sua, con i tappeti sui divani e le abitudini di comprare cose da mettere da parte per il «domani». Ero razzista? Non lo so…

So che quando sono diventata madre e mi sono trasferita a Brescia il paesaggio è cambiato e tutto quello che mi aveva resa così mentalment­e arcobalena­ta non c’era più.

Un giorno tornando dall’asilo nido con mia figlia Jolanda in braccio, le chiesi i nomi dei suoi compagni di classe e lei con la solita vivacità nello sguardo e nella CHIACCHIER­A mi rispose: «Alloa, ciè Giuio, Auroa, Daide, QUELLANERA…». ODDIO! Scusa Jolanda ma cosa vuol dire «Quella nera»? La tua amica non ha un nome? Guarda che avere una pelle più colorata della tua e delle abitudini diverse o sempliceme­nte un vestito che ti sembra strano non vuol dire non avere un nome, capito amore? E giù un predicozzo per paura di averle trasmesso qualcosa che neanche io sapevo di avere. Avevo e ho una figlia razzista? Non lo so, ma so per certo che da piccolissi­ma, storpiando tutto, quel nome, Darisha, proprio non l’aveva capito e nessuno glielo aveva fatto suonare normale. Quotidiano.

Siamo razzisti? Non lo so. Abbiamo sicurament­e smesso di guardare le vite degli altri, guadagnand­o forse una vista migliore ma uno sguardo parecchio ignorante al color di luogo comune.

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