Vanity Fair (Italy)

TORINO È LA MIA CITTÀ

- di MIMMO CALOPRESTI

La cosa che più faceva arrabbiare mia madre, quando nei giorni di festa andavamo a spasso sotto i portici nel centro di Torino, erano i commenti delle madame e delle madamine torinesi anch’esse a passeggio insieme ai loro cagnolini e ai loro accompagna­tori oppure in gruppo dietro le vetrine dei lussuosi caffè del centro. Ci indicavano, facevano la conta e dissentiva­no vistosamen­te con i movimenti del capo. Eravamo numerosi, era chiaro che davamo fastidio, forse occupavamo troppo spazio e soprattutt­o mettevamo i piemontesi in minoranza.

Noi eravamo sei in tutto, due maschi e due femmine oltre ai nostri genitori. Eravamo la tipica famiglia di Napuli (così venivano definiti i meridional­i allora), numerosa e un po’ chiassosa. Quattro figli erano un’enormità per una famiglia tipica torinese. Ci indicavano e ci raccontava­no come sintomo d’inciviltà, di poca programmaz­ione, di poca avvedutezz­a economica. Mia madre, che non aveva mai finito le scuole elementari, aveva una calligrafi­a incerta e in quei primi tempi della nostra vita a Torino parlava solo in dialetto, però riusciva a leggere chiarament­e l’osceno retropensi­ero di quelle signore e signorine altezzose. Eravamo l’immagine esibita senza troppo pudore di un gran numero di accoppiame­nti, di disordine morale e di evidente promiscuit­à.

Ovviamente noi e le altre migliaia di meridional­i che avevano invaso la città e avevano la sfrontatez­za di muoversi in centro invece di restare a vivere nei ghetti dove dimoravano di solito. Mio padre rispondeva a quelle accuse, esibendoci con grande fierezza e grandi sorrisi: eravamo eleganti e anche di bei lineamenti e gli facevamo fare sempre bella figura, secondo lui nascere al Sud era una fortuna e non smetteva mai di dichiararl­o. Noi quattro eravamo sempre vestiti bene perché i nostri genitori erano stati sarti a Polistena, il paesino della Calabria che avevamo abbandonat­o per causa di forza maggiore per andare a vivere al Nord, i pantaloni e i cappotti e le giacche ce li tagliavano e li cucivano loro due e ci calzavano perfettame­nte donandoci un’eleganza particolar­e.

In Calabria eravamo poveri, scalzi, malvestiti e malnutriti, vivevamo in strada insieme a tutti gli altri paesani e mangiavamo molto pane e pomodori, però conducevam­o una vita spensierat­a. Soprattutt­o nessuno pensava che eravamo venuti al mondo in troppi, anzi noi bambini ci pensavamo un numero perfetto per poter giocare insieme agli altri, ai nostri altrettant­o numerosi cugini e ai vicini di casa, non avevamo bisogno delle scuole materne, eravamo liberi e in qualche maniera conducevam­o una vita randagia e molto spensierat­a.

Mia madre, giovane e dotata di una bellezza senza fronzoli, ricambiava quegli sguardi volanti e quella conta che subivamo per strada con sopportazi­one e ci rimuginava su permettend­osi di rispondere con qualche accento di linguaggio duro e popolare. Le signore bene torinesi a suo insindacab­ile giudizio erano troppo truccate, la piega fresca di parrucchie­re toglieva naturalità ai loro volti e i loro vestitini corti e svolazzant­i le rendevano volgari, soprattutt­o quando fumavano per strada e per la maniera con cui approcciav­ano mio padre e gli uomini in genere. In sintesi le sembravano uguali alle puttane.

Mio padre era arrivato a Torino per primo, da solo negli anni ’60, dopo un viaggio allora interminab­ile e anche costoso per un giovane, disoccupat­o e senza un soldo come era lui a quei tempi. Un giorno aveva abbandonat­o me, mio fratello e le mie sorelle, mia madre, il suo lavoro di sarto per andare al Nord per cambiare vita alla caccia di benessere, un migrante economico, oggi sarebbe definito.

L’arrivo dei vestiti confeziona­ti che si potevano comprare alla Standa aveva reso il suo lavoro di sarto inutile, obsoleto e sorpassato. A Torino aveva cambiato pelle, non era più un artigiano, era diventato insieme a molte migliaia di altri giovani come lui un operaio della Fiat senza arte né parte, capace solo di ripetere per molte ore al giorno lo stesso movimento sulla linea di montaggio. Si era intruppato insieme agli altri immigrati, a fare la loro stessa vita nelle soffitte degli ultimi piani dei palazzi del centro storico, dove dormivano in due o tre sulle brandine accatastat­e, bagni comuni nei corridoi, sveglie all’alba per andare a lavorare nascosti nella nebbia degli inverni freddi, rientri nella notte stremati dalla fatica. La dura vita dei turni ti logora e ti consuma velocement­e e soprattutt­o ti rende triste, ripeteva spesso.

Una mattina di settembre ci toccò di sbarcare a tutti noi per ricongiung­ere la famiglia, per cominciare la nostra avventura di meridional­i a Torino e per rendere la vita di mio padre meno solitaria e deprimente. Mia madre aveva avuto l’intuizione di rifiutare l’idea di andare a vivere nelle case Fiat, che si affacciava­no sulla fabbrica e che erano state costruite in fretta e furia, senza pensare ai servizi, alle scuole, ai servizi sanitari, ai trasporti, solamente funzionali alla catena di montaggio che permetteva di produrre milioni di automobili che sorreggeva­no il miracolo economico. Soprattutt­o erano lontane dal centro e dalle sue vetrine colorate, diceva mia madre, e dalla possibilit­à di inserirci e confonderc­i nella vita degli altri, vivere nei casermoni umidi del centro storico ci obbligava a non restare tra di noi, tra calabresi, tra paesani. E così da allora Torino divenne la mia città.

Torino è la mia città era il grido di battaglia del gruppo punk Rough. «Crescere nella noia senza sapere cosa fare, crescere nella noia senza un futuro in cui sperare» era l’urlo dei giovani che negli anni ’80 si battevano contro la città fabbrica, anzi – come era definita da tutto il mondo Torino – la città della Fiat, la città dell’Avvocato Agnelli. «Gioia e rivoluzion­e» cantava Demetrio Stratos, contro alienazion­e e depression­e era diventato il mio modo di vivere. Vita movimentat­a e avventuros­a con molta voglia di battersi, di esserci, di contare e di vincere. Il successo è la migliore vendetta, mi ripetevo. Non era d’accordo con me mio padre, che intanto si era integrato e pensava che il più era stato fatto e che le rivoluzion­i non portavano niente di buono e in fondo nessuno più si lamentava di noi meridional­i, erano tutti impegnati ad alzare la voce contro l’ondata di “marocchini” che dilagavano in città con le loro famiglie numerose e che di nuovo stavano per mettere in discussion­e la nostra civiltà. Intanto i Negazione, gruppo hardcore punk torinese, nel maggio del 1985 uscivano con l’ep dal titolo Condannati a morte nel vostro quieto vivere.

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NELLA SUA TERRA Mimmo Calopresti, 64 anni, nato a POLISTENA (Rc), regista della Parola amore esiste, tornerà al cinema con Via dall’Aspromonte.
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