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Nel mondo in cui è cresciuta diventare attrice sembrava una missione impossibile. Ma per Lupita Nyong’o nessun traguardo è davvero irraggiungibile: si è messa d’impegno, ha «combattuto gli stereotipi», ed è arrivata all’Oscar. E come ha ribaltato la sua v
Mentre parliamo, Lupita Nyong’o pesca con le dita alcuni pezzetti di frutta da un cestello. «Ho fame», si scusa. Siamo sole, sedute in una stanza alla fine di un lungo corridoio, in uno dei tanti edifici sparsi negli Universal Studios a Los Angeles, ma lei è truccata, pettinata e vestita in modo inappuntabile. Non sfigurerebbe a un evento pubblico, molto più formale di questo. Il suo nuovo film Noi, in Italia dal 4 aprile, storia di una famiglia e dei suoi spaventosi doppelgänger, in America è stato accolto come un capolavoro horror e la sua prova d’attrice definita come la migliore di sempre. Roba forte, se consideriamo che Nyong’o aveva già vinto un Oscar nel 2014 con 12 anni schiavo – praticamente il suo primo film – e che il regista di Noi, Jordan Peele, a sua volta, ne aveva vinto uno lo scorso anno per la miglior sceneggiatura originale del suo precedente horror, Get Out, nominato anche nelle categorie miglior film e migliore regia.
Il nostro incontro, tra l’altro, avviene a pochi giorni dalla cerimonia degli Oscar 2019, alla quale aveva partecipato per Black Panther (sette candidature tra cui miglior film e tre vittorie). Anche Peele era presente, in quanto produttore di BlacKkKlansman di Spike Lee, altra nomination come miglior film. A spuntarla, però, è stato Green Book, considerato da alcuni addirittura razzista. Una scelta che ha fatto infuriare molti, a partire da Spike Lee, e che ha suscitato parecchie polemiche. «Qual è la sua opinione al riguardo?», chiedo. «La sorprenderebbe sapere quanto voi giornalisti siate più informati di noi», dice, schivando la domanda. «Per esempio, pensa che Spike Lee avrebbe meritato di più?», insisto. «No» è tutto quello che si limita a pronunciare. La fermezza avvolta da un sorriso e una risata. Allora parliamo del film Noi. È vero che voleva assolutamente fare un horror? «È così. Non amo particolarmente guardarli perché mi spaventano, ma sono sempre stata affascinata dal genere e curiosa del dietro le quinte: mi sono sempre domandata se girare un film di questo tipo è pauroso». Lo è? «No. Per entrare nella storia devi esplorare zone oscure della tua mente e durante la lavorazione mi è capitato di fare sogni strani, ma niente di più. Quando è uscito Get Out l’ho guardato cinque volte e Jordan Peele è finito subito in cima alla lista dei registi con cui dovevo assolutamente lavorare. Così, quando mi ha mandato la sceneggiatura, ho deciso ancor prima di leggerla. Ma quando l’ho letta mi sono appassionata ancora di più. E poter interpretare due personaggi così diversi l’uno dall’altro, ma al tempo stesso legati, è stato un regalo in più. Quante volte ti capita un’opportunità del genere?». Dopo un film di azione e supereroi come Black Panther, ha girato una commedia, Little Monsters, e prossimamente la vedremo in 355, una storia di spie con un cast tutto al femminile. Sembra davvero che voglia cimentarsi in tutti i generi possibili. «Non solo generi ma anche budget differenti. Sono passata da un kolossal come Black Panther, costato oltre 100 milioni di dollari, a un piccolo film come Little Monsters, con un budget di soli 5 milioni. Come attrice, mi aiuta a tenermi in esercizio». Quest’anno debutterà anche come scrittrice. In autunno uscirà il suo primo libro, una storia per bambini che ha come protagonista una ragazzina che non si sente bella perché ha la pelle scura. Ha preso spunto dalla sua vita? «S’intitola Sulwe e la protagonista è una bimba di 5 anni. In famiglia è quella con la pelle più scura e questo fa sì che fatichi a volersi bene. Vorrebbe tanto poter schiarire la sua carnagione. Il libro racconta il suo percorso verso l’autoaccettazione, verso la presa di coscienza della sua bellezza così com’è, ed è assolutamente autobiografico. L’ispirazione viene da un discorso che avevo preparato per l’evento di Essence Black Women in Hollywood nel 2014. Parlavo della mia esperienza, di che cosa aveva significato per me crescere in un mondo dove, al cinema e in tv, tutti quelli che hanno la pelle bianca e i capelli lunghi sono considerati belli. Chi non ha quell’aspetto inconsciamente comincia a pensare di non essere attraente. E non finisce lì perché, ovunque guardi, ti accorgi che la società dà un valore più alto alla pelle chiara, con tutte le conseguenze che questo comporta per quelli che bianchi non sono. Mi ci è voluto tempo per combattere quegli stereotipi e piacermi per come sono». Come ha fatto? «Devo ringraziare la mia famiglia, in particolare i miei genitori che mi hanno trasmesso tutto il loro amore». Immagino le dicessero anche che era bella. «Certo. Ma chi sta a sentire quello che ti dicono in famiglia? I genitori sono tenuti a dire cose del genere ai propri figli. E poi mi sono detta: devo far sentire apprezzati anche quelli che non hanno avuto la mia fortuna. Ecco perché ho scritto un libro per bambini, per aiutarli a riconoscere il proprio valore prima che il mondo dica loro che non sono giusti, in modo che abbiano a disposizione una riserva di autoapprezzamento per quando ne avranno bisogno». Sempre nel 2014, è diventata testimonial di Lancôme. Il fatto di essere stata la prima donna nera scelta dal brand ha un significato particolare per lei? «Assolutamente. Proprio perché non mi sono sempre considerata bella, poter diventare un simbolo per tante ragazze che oggi si sentono come me quando avevo la loro età è stato molto importante. Significa poter svolgere lo stesso ruolo che altre donne hanno svolto per me, per esempio la modella Alek Wek. È fondamentale avere esempi ai quali guardare, con i quali identificarsi». Ho notato che molto spesso nei suoi discorsi, anche in occasione della vittoria dell’Oscar per 12 anni schiavo, lei si rivolge ai bambini o parla di sé quando era piccola. E adesso ha scritto un libro per l’infanzia. Perché? «Non ci avevo pensato. Credo che la ragione sia che le ferite che ci portiamo dentro risalgono sempre ai primi anni di vita. Cresciamo cercando di guarire quei traumi. È interessante, mi fa pensare anche al mio personaggio in Noi, Adelaide: lei stessa sta affrontando i demoni che si porta dentro fin dall’infanzia, le sofferenze che l’hanno segnata. È quello che facciamo tutti, credo».
Chi ha la pelle chiara è considerato più bello. Mi ci è voluto tempo per piacermi
Ha iniziato a recitare a 14 anni, a teatro in Kenya. Ma poi è trascorso parecchio tempo prima che decidesse di farne un lavoro. Per quale ragione? Oltretutto, lei viene da una famiglia in cui l’arte era una passione condivisa e suo padre, quando era uno studente, amava recitare. «Nella società in cui sono cresciuta non sembrava una strada percorribile. Non conoscevo molti che facessero gli attori di professione. Non sai che una cosa è possibile finché non la vedi. Anche per questo l’inclusività nell’arte, nella cultura popolare è così importante. Perché non puoi essere quello che non vedi». A che punto siamo con l’inclusività nel cinema? «Un uomo saggio una volta ha detto: “Non congratularti troppo con te stesso e non rimproverarti”. Questa frase rispecchia il mio pensiero sulla situazione attuale. Ci sono stati progressi ma non è tempo per esserne troppo soddisfatti e neppure delusi. Si tratta di avanzare un passo alla volta e di far sì che il cambiamento avvenga». Lei, invece, una volta ha detto che gli insegnanti ti preparano al fallimento ma non al successo, aggiungendo che entrambi sono difficili da gestire emotivamente. «Il tuo corpo non distingue tra lo stress che deriva da eventi positivi o negativi. Tutti vogliamo avere successo, è quello che ci insegna la società in cui viviamo, ma c’è sempre un prezzo da pagare». Quindi è stato un bene aver vinto un Oscar a 30 anni, quando era giovane ma non troppo? «Sono grata di aver ricevuto un riconoscimento del genere a un’età in cui avevo già capito chi volevo essere. Se fosse successo dieci anni prima sarebbe stato tutto molto più complicato». Vinse per il ruolo di una schiava maltrattata e abusata. Sarebbe stato ancora meglio poter portare a casa quella statuetta per l’interpretazione di una donna di successo? «Non potrei mai, per nessuna ragione, pentirmi di quel personaggio. Non sarei qui altrimenti». Capisco. Ma io facevo riferimento al fatto che per molto tempo la maggior parte dei film incentrati sui neri ha raccontato storie di violenza, schiavitù e così via. «Lo so, ma sono troppo coinvolta a livello personale per essere oggettiva. Sono felice di lasciare ad altri il compito di discutere del tema che lei pone. Oggi non posso risponderle. Chissà, magari tra sessant’anni». Ma c’è stato un momento in cui ha avuto paura di rimanere imprigionata in quel ruolo? «Be’, è un timore che hanno tutti gli attori. Diventi famoso per avere interpretato una certa parte e la gente continua a vederti in quel modo. Nel mio caso, poi, si trattava del mio primo film. Certo che mi sono chiesta: che cosa riuscirò a fare dopo?». In realtà, nel 2009, aveva già prodotto e diretto un documentario, In My Genes, sulla discriminazione nei confronti degli albini in Kenya. «Sono orgogliosa di quel progetto, per gli effetti positivi che ha avuto non solo per gli albini di quel Paese ma in molte nazioni. Mi piacerebbe realizzare altri documentari ma dovrei trovare un argomento altrettanto appassionante, che mi tenga sveglia la notte». Nel frattempo, comunque, si tiene parecchio occupata. «Sto producendo un film ispirato all’autobiografia di Trevor Noah, Nato fuori legge, e una serie intitolata Americanah (basata sul romanzo della scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie, ndr). Produrre è diventata una necessità per gli attori, se vuoi avere il controllo e veder realizzate le storie che ti stanno a cuore». È uno dei benefit che derivano dall’aver vinto un Oscar? «Sì. Ora posso dire: mi interessa fare questo, vi va di collaborare al progetto? Sono molto fortunata: posso decidere in che direzione andare. La vera vittoria che arriva con un premio così è la possibilità di scegliere». Eppure da allora i media sono ossessionati dalla sua bellezza. Le dà fastidio? Ride. «Penso che non mi stancherò mai di sentirmi dire che sono bella. È appagante, tanto più per una come me, cresciuta pensando di essere il brutto anatroccolo».
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La vera vittoria che arriva con l’Oscar è che ti dà la possibilità di scegliere