Spero che, prima o poi, i nemici dei migranti si siederanno al loro stesso tavolo, nelle loro case, e si concederanno l’opportunità di capire chi sono quelle persone che odiano così tanto
Guillermo Arriaga
Cacciare mi ha spesso portato in zone remote del Messico. Posti raggiungibili solo attraversando chilometri e chilometri di sterrati polverosi. In uno di quei fortunati viaggi, ho incontrato una famiglia di tre fratelli, contadini analfabeti, che mi hanno accolto con una tenerezza e un affetto non comuni: Lucio, Pedro e Melquíades. Siamo diventati amici quasi quarant’anni fa e oggi siamo ancora in contatto. Ho visto nascere e crescere i loro figli, e sono fiero di essere padrino di alcuni di loro. In altre parole, per me sono di famiglia. Forse tra le persone più generose, divertenti, industriose e gradevoli che io abbia mai conosciuto. Ed è la loro storia che mi ha permesso di vedere da vicino il fenomeno della migrazione e le sue cause.
Durante gran parte degli anni Ottanta, il Messico piombò in una crisi economica di grandi proporzioni. È la ragione per cui molti scrittori e cineasti riuscivano a pubblicare o a girare solo molto tardi nella vita. Non c’erano soldi. La crisi costrinse il popolo messicano a brutali sacrifici in nome del motto preferito dai politici in tempi di austerità: «Tirare la cinghia». Certo, quella degli altri, non la loro.
Nonostante il momento così critico, Lucio e i suoi fratelli riuscivano più o meno a cavarsela: seminavano sorgo e pescavano pesci d’acqua dolce nell’enorme bacino su cui si affacciavano i loro terreni. Gli bastava per tirare avanti con una certa dignità. Tutto cambiò nel 1994, l’anno in cui entrò in vigore il Trattato di Libero Commercio tra Stati Uniti, Messico e Canada (Nafta). Non mi metterò qui a discutere su pregi o difetti del trattato, voglio semplicemente rivelare la storia di cui sono stato testimone.
Quell’anno iniziarono a circolare in Messico decine di prodotti agricoli statunitensi non soggetti a imposte. Persone come Lucio, Pedro e Melquíades non erano preparate a un’offensiva così feroce. Il loro miglior raccolto di sempre fu venduto a un prezzo irrisorio. Non gli rimase nulla, nemmeno i soldi per comprare le sementi e riavviare la coltivazione. Da un momento all’altro, le loro alternative per sopravvivere vennero meno: la loro economia, di per sé precaria, stava collassando. Ho visto da vicino la loro disperazione. L’ho vissuta con loro. Non hanno avuto altra scelta se non emigrare negli Stati Uniti.
I primi a migrare sono stati i miei figliocci, Pedro e Pedro, che chiamerò con i loro soprannomi Perico e Huevo, per distinguerli. Il primo era il primogenito di Lucio, il secondo, di Pedro. Ricordo ancora la sera in cui si sono congedati dalla famiglia, prima di intraprendere il lungo viaggio verso gli Stati Uniti. Perico ha rivisto Lucio, suo padre, solo diciassette anni dopo. Poi è partita Nere, poi lo stesso Pedro, il padre, con sua moglie Rosa, in seguito Melquíades e alla fine al paese sono rimasti soltanto Lucio, sua moglie, le figlie e il loro ultimo nato.
È stato un processo doloroso. Lo so per certo. Non vedere un figlio per decenni è un’esperienza durissima. Melquíades, per esempio, ha conosciuto sua figlia più piccola quando la bambina ha compiuto sette anni. C’è stato poi un momento in cui Rosa è scomparsa. Erano tutti convinti che fosse annegata nel fiume, un’altra delle centinaia di persone che perdono la vita nel tentativo di attraversare il confine. Pedro, in preda alla depressione, ha deciso di non tagliarsi i capelli finché non l’avesse rivista. Nessuno ha più avuto notizie di lei fino a quando, un anno e mezzo più tardi, è riapparsa. In generale, quando i migranti vengono fermati, la prassi prevede di rimandarli in Messico. Rosa aveva comprato un passaporto falso, commettendo quindi un reato federale negli Usa, e per questo era invece finita in carcere. Le avevano concesso una sola chiamata ma, poiché a casa non avevano il telefono, la donna non ci aveva badato e aveva riattaccato.
Posso dirvi che la migrazione ha una dimensione umana impossibile da immaginare. Provoca tristezza, nostalgia, rotture, gelosie, incertezza, rabbia e anche gioia, integrazione in un’altra cultura, lavoro e sì, felicità. Oggi i miei amici Estrada che vivono negli Stati Uniti sono felici.
Posso solo dire che invidio gli americani. Si sono portati via alcune tra le migliori famiglie che ho conosciuto in Messico. Capaci di dormire a terra pur di far accomodare un ospite sul loro letto. Capaci di condividere con il prossimo gli scarsissimi mezzi a loro disposizione. Spero che, prima o poi, i nemici dei migranti si siederanno al loro stesso tavolo, nelle loro case, e si concederanno l’opportunità di capire chi sono, chi sono quelle persone che odiano così tanto.
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*GUILLERMO ARRIAGA Nato a Città del Messico nel 1958, è sceneggiatore (Amores perros, 2000, 21 grammi, 2003, e Babel, 2006), regista (The Burning Plain, 2008) e scrittore (Il selvaggio, Bompiani, 2018).