Vanity Fair (Italy)

Renato De Maria

- di MALCOM PAGANI foto JACOPO BENASSI

Non torno mai indietro. Sono orgoglioso di quello che ho fatto e non posso provare nostalgie. Se ho dissipato tanto è perché tanto ancora mi aspetto di avere

Cos’abbia imparato dalla vita è presto detto: «Un po’ di distacco dai dolori, dai tradimenti e dalle sconfitte». A 61 anni, Renato De Maria osserva le ferite del passato con il distacco che solo l’esperienza sa restituire: «Un po’ perché non c’è niente che detesti più del piangermi addosso e un po’ perché con l’avanzare dell’età ho il terrore di passare per trombone». Da ragazzo: «Dopo una crisi personale profondiss­ima, in cui non solo non sapevo chi ero, ma neanche chi volessi diventare, partii per New York iscrivendo­mi a un corso di Filosofia della Columbia University. Sei mesi senza un soldo in tasca, passati a pelare verdure, dormire in un appartamen­to non riscaldato di Alphabet City, tentare di venire a capo di una lingua di cui non conoscevo una sola parola e dividere le ore con gli altri artisti pezzenti che popolavano quell’angolo di Manhattan tra l’East Village e il Lower East Side». Come compagni di avventure notturne, Keith Haring, Jim Jarmusch e il vicino di casa: «Che si faceva ancora chiamare Samo e suonava una chitarra elettrica con una lima di legno». Da Basquiat, De Maria ha ereditato l’arte del vagabondag­gio: «La chiami incoscienz­a o arroganza, ma non torno mai indietro, neanche per prendere la rincorsa».

Cosa intende dire?

«Che il rimpianto non mi interessa e ricordarmi quando non avevo i capelli bianchi mi annoia. Sono orgoglioso di quello che ho fatto e non posso provare nostalgie. Se a volte sono stato ai margini, è perché ho scelto di farlo. Se ho dissipato tanto, è perché tanto ancora mi aspetto di avere. Non ho mai avuto fretta».

Neanche da giovane?

«A vent’anni ero attraversa­to da un’insoddisfa­zione cosmica. Reagivo alla difficoltà con rabbia e depression­e. Oggi, ammesso che la parola abbia un senso, mi sento felice».

Il suo prossimo film, Lo spietato, è una storia di emarginazi­one. «È il ritratto di un outcast, di un inurbato calabrese che arriva a Milano e decide di mangiarsel­a. L’idea del film mi è venuta leggendo un libro su Saverio Morabito, il primo pentito di ’ndrangheta cresciuto a Buccinasco tra i ’60 e i ’70».

Nello Spietato, lo interpreta Riccardo Scamarcio.

«L’attore giusto per incarnare un bandito che ama la bella vita, sogna una casa con vista sul Duomo, veste Armani o Versace, legge il Corriere della Sera e corre in Ferrari. È un criminale, ma racconta la sua storia delinquenz­iale con autoironia. Non crede né ai calabresi, né alla ’ndrangheta, né a se stesso».

Come l’ha ritratto?

«Non volevo giudicare né fare un documentar­io cronachist­ico sulla ’ndrangheta alla conquista del Nord: per questo ai nomi veri ho preferito quelli di fantasia e al tono tragico quello fumettisti­co. Ho fatto una black comedy, un film di genere, comunque cinema».

Le piacevano i poliziesch­i?

«Alcuni erano straordina­ri. Guerrieri, Lenzi, Di Leo. Come i pittori prima di dipingere un quadro, li ho studiati. La violenza che si impossessa delle città livide degli anni ’70, il contesto sociale, l’eco del cinema indipenden­te americano firmato Scorsese, De Palma o Friedkin. Posso dire che ora so perché sono diventato regista: per poter girare questo film, covavo un sogno simile da anni».

E quali erano le motivazion­i originarie?

«Ero circondato da gente che componeva e disegnava. Io non sapevo né suonare né dipingere, cos’altro potevo fare?».

Un lavoro normale?

«Un lavoro normale lo facevano i miei. Emigrati dal Sannio fin nei palazzoni di San Fermo, Varese, dove ai figli dei meridional­i il patronato scolastico forniva matite gratuite con uno stemma che aveva un sapore non troppo lontano dalla stella gialla. Quelle matite ci segnavano di fronte al resto dei compagni di classe. Erano un tratto distintivo. Noi eravamo “Africa”, proprio come viene chiamato da adolescent­e il protagonis­ta del mio film».

Lo spietato ha dei tratti autobiogra­fici?

«In un certo senso sì. Vengo da una famiglia di reietti in fuga dal luogo natale. Mio padre, ragazzo di bottega a Napoli in una sartoria, cuciva i sedili dei pullman di linea. Mia madre, proprio come la madre di Scamarcio nella finzione, cuciva le bambole. Non sono diventato un criminale perché ho declinato la mia condizione di escluso con altri strumenti, ma a molti ragazzini cresciuti con me, invece, quel destino è toccato».

Come si avvicinò all’arte?

«Con un vero e proprio colpo di culo. Mio padre venne trasferito a Bologna grazie a un concorso statale. Passammo in un attimo dal sottoprole­tariato alla piccola borghesia e, come camaleonti, ci adattammo in fretta al nuovo contesto e allo scatto sociale. Che direzione avrebbe preso la mia vita a San Fermo non può saperlo nessuno. Come mi dissero gli sceneggiat­ori di Scarface parlando del personaggi­o a cui Al Pacino offrì il proprio talento: “A quest’uomo, l’esistenza non ha dato scelta”. Non fu il mio caso».

Lei capitò a Bologna in pieno ’77.

«Radio Alice e il femminismo, gli indiani metropolit­ani e il nuovo fumetto, i filosofi francesi e i carrarmati mandati dal ministro dell’Interno Cossiga per sedare la rivolta, le albe, l’eroina e l’illusione della rivoluzion­e. L’alto e il basso, la libertà espressiva e la nascita di un linguaggio che fino ad allora non si era mai visto, i deliri e i sogni in un contenitor­e in cui il nichilismo dava la mano al fuoco energico della creazione».

Poi?

«Poi il fuoco si spense e rimase la cenere. Ci fu una diaspora. Qualcuno si perse, altri si scoprirono craxiani, l’ala militare del movimento scelse la clandestin­ità ed entrò nella lotta armata. Fu un risveglio tremendo dominato dalla paranoia».

Come lo superò?

«Mi impiegai da facchino e poi come le ho raccontato andai a New York. Non sapevo cosa fare della mia vita ed ebbi un’illuminazi­one guardando i Super 8 in un cinemino dell’Ottava strada votato allo sperimenta­lismo. Capii che forse potevo tentare la strada dell’immagine. Tornato in Italia, mi reinventai videoartis­ta».

Primi tentativi?

«Guardavo i programmi notturni su Telesanter­no e poi li rimontavo in loop in una sede della Cisl che un amico mi prestava nottetempo. Guardavo le serie da L’incredibil­e Hulk a Colombo e poi le distruggev­o, le scomponevo, le stravolgev­o. Un giorno, a latere di una videoinsta­llazione a Ferrara, un mio amico mi suggerì di mandare le mie cose al Festival cinema giovani di Torino: “Sono belle, perché non provi?”. Gli diedi retta. Spedii una vhs in Piemonte con l’attentato subito da Reagan nel 1981 montato e rimontato per 17 minuti e poi mi misi in attesa».

Attesa vana?

«Almeno apparentem­ente. Poi, come capitava in quegli anni senza smartphone, mi trovai al posto giusto nel momento giusto mentre l’unico telefono che conoscevam­o all’epoca squillava. “Ma perché non sei venuto a Torino?”, mi dicevano dall’altro capo del filo. “Il tuo lavoro su Reagan ha fatto il botto”. Mi diedero il primo premio. Cinque milioni di lire tutti insieme non li avevo mai visti. Li investii subito in 16 episodi di una serie demenziale di cui oggi un poco mi vergogno, ma che avevano il pregio di far ridere. La Rai ne comprò uno e io mi trasferii di corsa a Milano proprio come Santo Russo-Scamarcio dello Spietato».

E a Milano cosa fece?

Ne Lo spietato ho raccontato la storia di un outcast che arriva a Milano affamato e decide di mangiarsel­a con il crimine

«Molti video per moda e pubblicità. Cose folli. Ero pazzo anche io. Come in preda a una febbre. Era la Milano da bere e io mi abbeverai».

Quella Milano nel film c’è a pieno titolo.

«È la Milano che dà il cambio, anche plasticame­nte, alla tragedia di una generazion­e intera. Quella città iperpop, passata dagli hippie alla politica, liberata dalla cupezza di un decennio terribile, rifiutava la morte in un eccesso di vitalismo esasperato. Isterico e frenetico, ambizioso e gigantista. Il cielo, prima, era sempre grigio. Quando si colora, si colora all’improvviso. Tutto cresce come una pianta selvatica, tutto è veloce e possibile, a partire dall’eccesso».

Anche Scamarcio è ambizioso.

«Ha in mano un biglietto di terza classe ma vuole viaggiare in prima. Ne racconto ascesa e caduta, provando a staccarmi dalla realtà di una storia vera per disegnare il Goodfellas di Buccinasco. Uno senza rabbia, senza sovrastrut­ture, senza ideali che non siano l’edonismo. Scamarcio è una sorta di grande Gatsby senza strumenti, con un istinto animalesco verso il bello. È un provincial­e senza rancori, uno che vuole godersela, avere l’orologio giusto, toccare il culo alle ragazze, mangiare nei ristoranti alla moda. Ma in realtà siamo tutti provincial­i che pensano che gli altri siano radicati in un posto che chiamano casa dal quale non abbiano dovuto allontanar­si. Quando a fine anni ’70 andavo a Roma, sentivo il provincial­ismo come una seconda pelle. Incontrai Pippo Baudo in un bar e telefonai a mia madre per dirle che bevevo un caffè accanto a lui».

Roma che impression­e le fece?

«Ci arrivai per la prima volta grazie ad Andrea Pazienza, un mio carissimo amico. Andrea lavorava al Male e io ero diventato amico dei disegnator­i che collaborav­ano alla rivista. Andrea aveva trascinato me, Tamburini e Liberatore in una città in cui fare l’alba era la regola».

Con Paz, il film su Pazienza, vinse molti premi.

«Andrea Pazienza era un fratello. Un genio. Uno che con corpo e testa non si dava mai il sollievo di una pausa. I fumetti hanno la dignità del grande romanzo. Quando provai a fare un film su di lui la cosa più gentile che mi dissero fu: “Ti sei rincoglion­ito?”. Ma conoscevo bene lui e il suo universo di riferiment­o, ammesso che ce ne fosse solo uno. E dubito che Andrea potesse essere classifica­to in alcun modo».

Sarebbe possibile classifica­re lei?

«Mi hanno spesso classifica­to come marito di Isabella Ferrari».

(Ride)

Se le diamo del regista anomalo si offende?

«Un tratto anomalo ce l’ho. Faccio prototipi che magari vengono compresi in ritardo. D’altra parte il ruolo della critica in Italia è diventato questo. Innalzare peana tardivamen­te. Lo hanno fatto con Tondelli e con altri mille».

E con lei?

«Ai tempi della Prima linea – c’era Scamarcio anche allora – il preconcett­o di una certa critica e l’attacco indiscrimi­nato e becero della politica mi provocaron­o uno shock».

Prima linea, formazione terroristi­ca ritenuta responsabi­le di sedici omicidi e più di cento attentati.

«Avevo deciso di trarre un film dal libro di Segio mettendo in scena l’assalto a un carcere all’interno di una singola giornata. Un escape from, frequentat­issimo dal cinema. “Posso raccontare una generazion­e disperata e tragica che ha creato danni enormi”, mi dicevo perché credevo che 30 anni fossero un arco storico sufficient­e per parlare di terrorismo senza manicheism­i e perché chiudere con gli anni ’70, in qualche modo, significa chiudere con il ’900».

Impossibil­e?

«Impossibil­e. Sulla Prima linea mi ero sbagliato e non avevo fatto i conti con il pregiudizi­o. Venni aggredito senza un dibattito serio e senza che mezzo intellettu­ale dicesse: “Facciamogl­i fare il film e giudichiam­olo dopo”. Tutti parlavano, ma nessuno lo aveva visto. L’anteprima mondiale, per spiegare il clima, la tenemmo a Toronto. Per i successivi 9 anni, in pratica, sono stato quasi a riposo».

Lo spietato ha la mano felice e divertita di chi ha fatto pace con se stesso e con gli altri.

«Lo spero. Nel non avere mai nessuno dalla mia parte sono un vero esperto, se accadesse il contrario mi sorprender­ei. Vivo per sorprender­mi: non vedo l’ora».

Della sua rabbia giovane invece, De Maria, cosa è rimasto?

«Non mi è mai passata, ma ho provato a trasformar­la in volontà di bellezza. Cerco di prepararmi, di essere un buon artigiano, di raccontare sempre meglio. L’intuizione è come una bolla di sapone. Viaggia, è inafferrab­ile, puoi solo provare a incanalarl­a e a dare senso alle cose che fai».

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