Vanity Fair (Italy)

ALEX ZANARDI

«La passione è il motore più potente». Che l’ha spinto, a 52 anni, a (ri)conquistar­e l’America, con la mitica gara di Daytona, e a mettere nel mirino Tokyo e i Giochi di handbike, per la terza volta

- di FRANCESCA CIBRARIO

«La vita ha più fantasia di noi e, ogni tanto, decide al posto nostro. L’importante è cavalcare quello che ci offre». Lo dice Alessandro Zanardi, uno che, non importa quanto brutta fosse la caduta, è sempre risalito in sella. O meglio, a bordo. Anche dopo l’incidente che gli è costato le gambe. 17 anni dopo, torna negli Stati Uniti per la 24 Ore di Daytona, dove viene celebrato anche da Cnn e dal New York Times: «Ho conosciuto il successo proprio in America negli anni ’90, nella IndyCar. Allora ero un pilota rispettato da molti e antipatico ad altri. Oggi non è più così: le vicende di vita di cui sono stato protagonis­ta hanno reso il mio percorso un po’ romantico». Forse perfino eroico? «Chi ti ha visto su un elicottero, dato per morto, e poi ti vede guidare sullo stesso circuito è logico che gridi al miracolo. Negli Usa la mia storia era nota solo agli appassiona­ti. Ma questa volta se n’è parlato sui grandi media: l’accoglienz­a mi ha scaldato il cuore, a prescinder­e dal risultato in gara». Anche una sconfitta può essere di stimolo? «La vita perfetta è un’alternanza tra difficoltà e traguardi. Perdere rafforza la gioia della vittoria. Io mi mettevo in discussion­e anche quando vincevo con tutti gli accessori forniti da madre natura, figurati oggi». Era la prima volta su un’auto con quella configuraz­ione? «Sì. Avevo già partecipat­o a una gara di durata nel 2015, dove avevo avuto problemi perché le protesi non permettono di dissipare il calore corporeo. Quando mi chiesero come diventare un migliore pilota da endurance, risposi che avremmo dovuto studiare dei dispositiv­i per guidare senza protesi. I tecnici di Bmw li hanno realizzati. Ora uso un volante in cui è inserito l’accelerato­re e una leva-freno che aziono con la mano destra». Ha abbattuto le barriere architetto­niche all’interno dell’auto. «Sì. Questo set è adatto per chiunque abbia le braccia sane. Quando ho cominciato a correre da disabile c’era il timore che avessi problemi e me la prendessi con l’organizzaz­ione, così ho dovuto superare test e difficoltà legate all’ignoranza. Oggi, dopo la mia piccola battaglia, Frédéric Sausset ha disputato la 24 Ore di Le Mans con amputazion­i a mani e piedi e Robert Kubica corre con la Williams in F1 nonostante la limitazion­e alle mani dopo un incidente. Racconto questa storia con un pizzico di orgoglio. Anche se io non l’ho fatto per cambiare il mondo, ma perché mi piace correre». Voi sportivi sembrate provare «piacere» nel sacrificio... «Forse è proprio questa inclinazio­ne che ti fa diventare uno sportivo. Ma devi metterla davanti a tutto. Facendo il conduttore tv a Sfide, ho riconosciu­to l’abnegazion­e dei campioni: per allenarsi Maradona scavalcava le reti dei campetti, Mennea lo faceva nelle pause di riposo di nascosto dall’allenatore, Valentina Vezzali era la prima ad arrivare e l’ultima ad andarsene. Si può chiamare sacrificio, impegno, dedizione: io la chiamo passione. È il motore più potente che esista». Auto, handbike, Ironman. C’è qualcosa che la frena? «A volte sono dominato dal terrore, perché tutto è proporzion­ato al risultato a cui punti. Ma se sei riuscito ad abbassare la visiera del casco davanti a 100 mila persone che fanno più baccano del motore alle tue spalle, il resto diventa più facile. Anche entrare in un villaggio olimpico». Prossima sfida? «Alle porte c’è un’importante stagione nel paraciclis­mo, con punti in palio per Tokyo 2020. Portare a casa una medagliett­a alla soglia dei 54 anni sarebbe tanta roba. E potrei farcela». A chi si ispira? «Ho avuto un papà molto saggio, anche se di cultura modesta. Faceva l’idraulico e mi diceva: “Ti auguro di diventare un pilota di F1, ma nel frattempo impara il mio mestiere che al massimo sarai un pilota che sa anche aggiustare lo scarico di un cesso”. E un’altra cosa mi diceva: “Te, Sandrino, gira la testa e guarda che cosa fanno gli altri, perché dagli altri si impara”. Ed è vero. Ricordo quando i miei obiettivi erano sempliceme­nte fare una doccia da solo o la pipì da in piedi. In quei momenti la mia ispirazion­e erano gli altri pazienti. Persone meraviglio­se che, senza titoli sui giornali, hanno fatto cose ben più grandi di me. Persone che, con un gesto di forza in un momento perfetto per soccombere a una debolezza, ti portano a dire: “Se ce l’ha fatta lui, posso riuscirci anche io”». Che effetto fa essere modello di Armani per la campagna EA7? «La vita non smette mai di stupire».

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