Cannibali, necrofili
In galera, tutti in galera. Mi costituisco per primo: colpevole di concorso esterno in associazione mostruosa. Partecipo a una banda dedita al crimine, se non altro per noncuranza. Il nostro delitto – nostro, proprio di noi giornalisti, noi dei giornali, dei giornaletti e dei giornaloni – non è lo spaccio di fake news, ma la propalazione di eccesso di verità a scopo d’intrattenimento. Non esagero, sentite qua (è una storia che conoscete tutti): una donna di
Prato poco oltre la trentina, con marito, figlio oggi di sette anni, impartisce lezioni d’inglese a un ragazzetto di tredici, sinché non finisce con l’introdurlo alla vita.
E il passaggio dall’introduzione alla vita alla riproduzione della stessa è un rischio mai abbastanza calcolato, cosicché la famiglia dell’insegnante si ritrova con un bimbo in più, e il bimbo con un padre che non è suo padre. La sentite l’acquolina in bocca? C’è di che pasteggiare per settimane. E infatti del feuilleton si avverte l’odore a distanza, noialtri dei giornaletti e dei giornaloni ne facciamo la fiction della primavera, un aggiornamento a puntate sul
ballatoio globale. Nemmeno l’incomodo di origliare: siamo pettegole legalizzate – noi che scriviamo, voi che leggete. L’indomani ha l’aggiornamento, sino all’ultimo, quello della mattina in cui sto stendendo queste righe, con la pubblicazione degli sms, dei WhatsApp, dei messaggi Facebook fra la donna sbandata e il ragazzetto smarrito.
Mesi fa una studentessa di Cassino (Frosinone) scrisse in un tema delle molestie subite dal padre. All’uomo fu applicato un braccialetto elettronico, perché non intralciasse le indagini, e andò tutto liscio sinché il profumino non si insinuò nelle redazioni, e si avviò il concerto con la grancassa, e l’uomo prese una corda, se la infilò al collo e s’ammazzò. Niente, non ce n’è fregato niente – a noi che scriviamo, a voi che leggete. Perché la spettacolare, orrida, vomitevole ipocrisia è quella di non rendere noti i nomi. Non è una meraviglia? Non vi dico i nomi della ragazza di Cassino, né il nome del ragazzetto di Prato, né quello del bimbo di sette, né del neonato: ah no, non li dovete mica riconoscere! Dobbiamo proteggerli! Così io che vivo a Roma e tu che vivi a Milano non li conosciamo e non li riconosciamo, ma a Cassino e a Prato li conoscono tutti. E li riconoscono tutti. Sputtanati. Stuprati. Di nuovo e da capo. Senza implicazioni sentimentali, senza cedimenti psicologici – quelli appartengono ai protagonisti, sono elemento della trama –, solo per il gusto di vedere che succede, trasalire al colpo di scena, sbranare
le vite degli altri per passatempo, le vite di una donna, di un uomo, di un ragazzo, di un bambino, di un neonato.
Ho visto una foto da qualche parte del film di Walter Veltroni (C’è tempo), si vedevano i protagonisti, un adulto e un piccino e il piccino aveva il volto pixellato, cioè reso irriconoscibile. Per la tutela dei minori, santo cielo. Un bambino attore, che sta sugli schermi di ogni cinema, reso irriconoscibile per la tutela dei minori. E poi si sono presi questi altri e li si è consegnati all’isola dei famosi della nostra
noia, tu sei quello con due padri, tu sei quello con la mamma così, tu sei quello…
In galera, tutti in galera, cannibali, necrofili. * editorialista de La Stampa