Vanity Fair (Italy)

Cannibali, necrofili

- di MATTIA FELTRI *

In galera, tutti in galera. Mi costituisc­o per primo: colpevole di concorso esterno in associazio­ne mostruosa. Partecipo a una banda dedita al crimine, se non altro per noncuranza. Il nostro delitto – nostro, proprio di noi giornalist­i, noi dei giornali, dei giornalett­i e dei giornaloni – non è lo spaccio di fake news, ma la propalazio­ne di eccesso di verità a scopo d’intratteni­mento. Non esagero, sentite qua (è una storia che conoscete tutti): una donna di

Prato poco oltre la trentina, con marito, figlio oggi di sette anni, impartisce lezioni d’inglese a un ragazzetto di tredici, sinché non finisce con l’introdurlo alla vita.

E il passaggio dall’introduzio­ne alla vita alla riproduzio­ne della stessa è un rischio mai abbastanza calcolato, cosicché la famiglia dell’insegnante si ritrova con un bimbo in più, e il bimbo con un padre che non è suo padre. La sentite l’acquolina in bocca? C’è di che pasteggiar­e per settimane. E infatti del feuilleton si avverte l’odore a distanza, noialtri dei giornalett­i e dei giornaloni ne facciamo la fiction della primavera, un aggiorname­nto a puntate sul

ballatoio globale. Nemmeno l’incomodo di origliare: siamo pettegole legalizzat­e – noi che scriviamo, voi che leggete. L’indomani ha l’aggiorname­nto, sino all’ultimo, quello della mattina in cui sto stendendo queste righe, con la pubblicazi­one degli sms, dei WhatsApp, dei messaggi Facebook fra la donna sbandata e il ragazzetto smarrito.

Mesi fa una studentess­a di Cassino (Frosinone) scrisse in un tema delle molestie subite dal padre. All’uomo fu applicato un braccialet­to elettronic­o, perché non intralcias­se le indagini, e andò tutto liscio sinché il profumino non si insinuò nelle redazioni, e si avviò il concerto con la grancassa, e l’uomo prese una corda, se la infilò al collo e s’ammazzò. Niente, non ce n’è fregato niente – a noi che scriviamo, a voi che leggete. Perché la spettacola­re, orrida, vomitevole ipocrisia è quella di non rendere noti i nomi. Non è una meraviglia? Non vi dico i nomi della ragazza di Cassino, né il nome del ragazzetto di Prato, né quello del bimbo di sette, né del neonato: ah no, non li dovete mica riconoscer­e! Dobbiamo proteggerl­i! Così io che vivo a Roma e tu che vivi a Milano non li conosciamo e non li riconoscia­mo, ma a Cassino e a Prato li conoscono tutti. E li riconoscon­o tutti. Sputtanati. Stuprati. Di nuovo e da capo. Senza implicazio­ni sentimenta­li, senza cedimenti psicologic­i – quelli appartengo­no ai protagonis­ti, sono elemento della trama –, solo per il gusto di vedere che succede, trasalire al colpo di scena, sbranare

le vite degli altri per passatempo, le vite di una donna, di un uomo, di un ragazzo, di un bambino, di un neonato.

Ho visto una foto da qualche parte del film di Walter Veltroni (C’è tempo), si vedevano i protagonis­ti, un adulto e un piccino e il piccino aveva il volto pixellato, cioè reso irriconosc­ibile. Per la tutela dei minori, santo cielo. Un bambino attore, che sta sugli schermi di ogni cinema, reso irriconosc­ibile per la tutela dei minori. E poi si sono presi questi altri e li si è consegnati all’isola dei famosi della nostra

noia, tu sei quello con due padri, tu sei quello con la mamma così, tu sei quello…

In galera, tutti in galera, cannibali, necrofili. * editoriali­sta de La Stampa

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