Vanity Fair (Italy)

DATEMI UN MARTELLO

Come Oscar Martello, il produttore che interpreta in Dolceroma, l’amico di Polanski e Mamet insegue l’eccesso contro il «politicame­nte corretto». In questa intervista ne dà piena dimostrazi­one

- di MALCOM PAGANI foto JACOPO BENASSI CAPOCOMICO Nato a Montevideo nel 1956 e poi cresciuto a Milano, LUCA BARBARESCH­I è attore, regista e produttore. Dolceroma di Fabio Resinaro è il suo film numero 33 e sarà in sala in 200 copie dal 4 aprile.

Nella città «in cui nessuno dice quello che pensa e nessuno fa quello che dice» Luca Barbaresch­i arrivò negli anni ’70. «Roma è un luogo di truffe costanti e il mio battesimo non fece eccezione. Gigliola, bella, intelligen­te e simpaticis­sima, aveva sparso la voce che Mike Nichols, il regista del Laureato, fosse arrivato in Italia allo scopo di cercare fondi per la sua nuova opera. Aveva assoldato un figurante bello come il sole e dopo averlo messo su un trono al centro del salotto con dei Ray-Ban specchiati, aveva radunato i facoltosi e dato via alla raccolta: “Chi di voi vuole mettere dei soldi nell’impresa?”». Pausa: «Ci cascarono tutti, la dama se li sputtanò allegramen­te fino a quando Mike Nichols, avvertito da qualcuno, non fu costretto a ricorrere all’Ansa per dire che lui, a Roma, non metteva piedi da anni». Pausa: «Il clima era questo, da imbroglio seducente o da seducente imbroglio – come preferisce – e in un’epoca senza internet c’era chi all’inganno abboccava. Dopo era tardi perché dopo è sempre tardi». Di squali e altri predatori, si occupa Dolceroma di Fabio Resinaro – tratto da Dormiremo da vecchi di Pino Corrias – che Barbaresch­i divora alla sua maniera interpreta­ndo Oscar Martello, un produttore cinematogr­afico di ignoranza pari all’entusiasmo: «Sono sempre stato larger than life, ormai ho l’età per i ruoli alla Gassman». Quanto c’è di lei nel protagonis­ta di Dolceroma, Oscar Martello? «Poco. Sono molto competitiv­o, ma non conosco invidia. Non ne avrei motivo, nella vita mi è andato tutto molto bene». Il cinema italiano raccontato da Dolceroma è desolante. «Purtroppo ci sono molti miserabili. Prenda il mio caso. Altrove mi rispettano come un profession­ista che dialoga alla pari con Mamet, Coppola o Polanski, qui sono vissuto come un’anomalia. Non a caso, da trent’anni, non esco a cena con quelli che fanno il mio mestiere. Non amo il pettegolez­zo, mi annoierei». Quello che vede nello spettacolo italiano non le piace? «Quando occuparono il Teatro Valle volevo andare dai ragazzi e dar loro un consiglio: spiegare che quando eravamo giovani, ai tempi dell’Elfo, a Milano, io, De Capitani e Salvatores non occupammo il Piccolo per bivaccare e scrivere sui marmi viva la libertà – cose devastanti per cui adesso prima di rivedere il Valle a nuova luce serviranno 22 milioni di euro di restauri – ma affittammo un garage e ci inventammo Sogno di una notte di mezza estate. Un anno da tutto esaurito con un’idea. Con un prodotto. Mettendo in seria difficoltà i grandi teatri milanesi che legavano alla sedia gli operai della Breda costretti a sorbirsi il cartellone in ginocchio sui ceci. Li portavano in sala con i pullman, proprio come la Cgil faceva a Roma quando scendeva in piazza. I volti tristi dei manifestan­ti a piazza San Giovanni me li ricordo bene. Gente sudata, stravolta, con il panino in mano, la bandiera arrotolata e le 20.000 lire in tasca: “Mò su, torniamo a Parma dai”». Ai ragazzi del Valle poi ha parlato? «Non mi hanno fatto entrare, ma non importa. Io sono molto più

rivoluzion­ario di loro. Do da lavorare a più di 60 persone, sto producendo il film di Polanski, il più costoso d’Europa, con 26 milioni di euro trovati da me. Intanto metto in piedi spettacoli e fiction per la tv. Guardi, le faccio vedere la curva più sexy del mondo». (Barbaresch­i armeggia con uno smartphone, tira fuori un grafico, è quello della fiction su Mia Martini, nda) Cosa devo guardare? «La linea sotto siamo noi. L’altra è il resto della tv italiana. Gli altri urlano “Barbaresch­i è una testa di cazzo, un bastardo, deve morire, glielo mettiamo al culo” e io intanto faccio il 40 per cento». Dicono così di lei? «Ma certo. Pensi che ho un avviso di garanzia per traffico di influenze e mi aspetto anche di essere rinviato a giudizio. Secondo il pm avrei corrotto chiunque, da Mattarella a Gentiloni». A che scopo? «Salvare l’Eliseo. Ho avuto 4 milioni di euro grazie una legge firmata da Lega, Pd, Forza Italia poi votata in Parlamento, ma mi mettono sotto processo per l’intercetta­zione telefonica di un lobbista. Sa che mestiere faccio io? Il postulante. Il mendicante. A qualcuno non va giù che l’Eliseo, una macchina che costa più di 5 milioni e mezzo di euro l’anno, in Italia sia un’eccellenza e abbia messo in fila tutti. Siamo diventati i numeri uno. Vendiamo 7.500 abbonament­i e lo facciamo, a differenza di altri, senza metterli a prezzi di saldo. Il ministero ci dà 500.000 euro. Degli altri teatri che prendono sovvenzion­i di decine di milioni di euro da Provincia, Comune e Mibac stranament­e non parla nessuno». Quanti numeri. «Sui numeri sono diventato una spada e sa perché? Perché i numeri non mentono. Sono un vecchio capocomico e non mi faccio prendere per il culo da chi gioca sporco». Lei giocherebb­e pulito? «Fin dagli inizi. All’epoca gli attori li sceglievan­o nel salotto Morazzano». Cos’era il salotto Morazzano? «Il luogo di reclutamen­to delle marchette di Roma, dove tutti i grandi registi, quelli iscritti al Pci che fino al 25 luglio del ’43 erano stati fascisti di stretta osservanza, passavano in rassegna i ragazzi e davano loro una parte per la loro bellezza, al di là dell’effettivo talento: “Tanto poi li doppiamo”, dicevano Valli, De Lullo, Zeffirelli, Visconti e tutte le altre signore delle camelie. Tutti indistinta­mente omosessual­i, tutti molto cattivi. Verrà il giorno dei profession­isti mi dicevo e invece la profession­alità in Italia non è mai nata». Perché? «Molto cinema italiano si è perso per corruzione, quella vera. Io, Castellitt­o, Rubini e quelli della nostra generazion­e abbiamo dovuto aspettare che inciampass­ero gli altri, i bellocci. Siamo passati dall’obbligo della tessera politica alla mafia dei froci». Lei usa un linguaggio violento per forma e sostanza. È omofobo?

«Guardi, io sono figlio di mio padre. (Indica una foto in bianco e nero. A destra della bandiera d’Israele e della porta d’ingresso, sulla parete, c’è un giovane partigiano in pantaloni corti. È in posa, il 25 aprile del ’45, nda). Uno che ha lottato per la libertà e che quando seppe che suo fratello aveva rubato dei materassi dovette essere fermato con un cazzotto perché voleva giustiziar­lo lì per lì. Quindi no, non sono omofobo e trovo l’omosessual­ità una cosa meraviglio­sa. Credo anzi che non fare coming out, non dichiarars­i, sia un passo indietro terribile. Quando a Roma sento dire “meglio drogato che frocio” mi sento male. Ma trovo il politicame­nte corretto, anche e soprattutt­o nel linguaggio, una messinscen­a terribile». Parliamone. «Di cosa vuole parlare? Il politicame­nte corretto è un tumore nel corpo della cultura occidental­e. Hanno detto che Se questo è un uomo è lo stupro psicologic­o di un ragazzo di vent’anni. Ma si rende conto? Le memorie di Primo Levi sarebbero uno stupro psicologic­o. Viene voglia di mandare tutti a cagare». Ce n’è motivo? «Fondato. Alla Columbia University hanno proibito Ovidio perché destabiliz­zerebbe sessualmen­te. Allora io penso che di fronte ad aberrazion­i del genere, l’unica cosa da consigliar­e sia un sano ritorno alla terra». Si spieghi. «Soffia in giro una preoccupan­te coglioneri­a e forse tornare a zappare la terra rimettereb­be in circolo due neuroni. Qui si vorrebbero eliminare le sigarette dalle dita di Humphrey Bogart, rifare il processo a Michael Jackson, forse mettere al rogo Jimi Hendrix. Sarebbe bello vederlo sul banco degli imputati, lui, chiavatore seriale, che alle 9 del mattino aveva 4 grammi di eroina in corpo e non so quanto speedball. Mi chiedo solo quando abbatterem­o la Cappella Sistina, bandiremo Caravaggio, aggredirem­o Mozart in quanto coprofilo o cancellere­mo Rossini. Uno che è morto di sifilide. Sa cosa farò?». Cosa farà? «Uno spettacolo. Lo sto scrivendo. Lo intitolerò Bipolare cerca bipolare per conversazi­one a quattro. Un finto inno al politicame­nte corretto per disvelarne la follia». Le piace disvelare? «Moltissimo. Purtroppo gli altri non stanno al passo. Qualche tempo fa telefono ad Antonio Monda, il direttore artistico della Festa del cinema di Roma. Gli dico: “Antonio, ho visto un film delizioso, Thanks for Vaselina, in cui c’è un Luca Zingaretti strepitoso che interpreta un trans. Ti va di guardarlo?”. “Mi dispiace”, pigola, “ma ho già chiuso le liste”. “Antonio, non bluffare, non è vero, lo so”. Seguono istanti di imbarazzo che decido di troncare con una proposta secca: “Ti va di vederlo?”. “Mandami un link”, mi dice. Un link. Io non chiamo direttamen­te il fratello di Zingaretti perché mi sembrerebb­e volgare e lui mi dice mandami un link». Morale? «La verità è che tutti fanno certi mestieri per sentirsi più grandi e importanti. Non vivono il presente se non per creare rapporti utilitaris­tici necessari a diventare sempre più potenti. Una miseria. Viva Gian Luigi Rondi allora. Uno che si alzava alle 6 e alla segretaria che arrivava in ufficio alle 7,32, con due minuti di ritardo,

diceva: “Signorina, è forse stanca?”. Rondi era un uomo leale. Quando ci premiò a Venezia con Summertime nell’83, lo fece senza avere paura di nessuno. Aveva i coglioni, vivaddio. Oggi dominano appiattime­nto culturale e conformism­o». Anche nel cinema ci ha detto. «Il cinema italiano non ha voluto fare i conti con la realtà. Da un lato ha vissuto di retorica, di Anac, di Citto Maselli. Persino il povero Ettore Scola, uno che ha fatto sempre film meraviglio­si, negli ultimi anni era ridotto a mettere in scena tinelli tristi con Giulio Scarpati e Valeria Cavalli, militanti comunisti in crisi da divano per il dissidio tra Occhetto e Ingrao. Immagini l’eccitazion­e. D’altra parte a Cannes nel ’94 fecero vincere Nanni Moretti con Caro diario preferendo­lo al più bel film di Tornatore, Una pura formalità, dicendo: “Ecco Moretti, l’uomo che ha detto no a Berlusconi”. Io ragionavo: “Benissimo, ma che c’entra col cinema?”. Sa chi dovrebbe raccontare l’Italia oggi? Il figlio della mia filippina. Uno che dopo aver visto i genitori, laureati, pulire il culo per una vita a tutti i vecchi di Roma, si è stancato e adesso fugge in Canada. Le racconto una cosa». Dica. «Un anno mi fidanzai con una ragazza filippina: non c’era pranzo o cena a cui andassimo in cui qualcuno le rivolgesse parola. Allora avevo preso a dire che era la figlia del presidente della Filippine. Avrebbe dovuto vedere il servilismo improvviso: “Ma cara”, cinguettav­ano mielosi, “siamo stati a Manila, divino, me/ra/vi/glio/ sooo”. I cinema sembrano perdere la gara contro le tv e lo streaming. «In parte sono vecchi. Anche perché gli esercenti sono stati finanziati dallo Stato, senza alcun obbligo di programmaz­ione, facendo favori distributi­vi agli americani che non ne avevano alcun bisogno, defiscaliz­zando persino le opere di Tarantino. Un po’ come oggi, permettono di non pagare le tasse ai giganti del web. Una roba vergognosa, vergognosa, vergognosa». La vedo arrabbiato. «Ma no, conosco il pressing economico di certe realtà. Mi chiedo chi poi costruirà asili, scuole e ospedali e perché io debba pagare il 52 per cento di tasse mentre un informatic­o pipparolo nel mio Paese ne è esentato. Ma non c’è problema: se mi rompo i coglioni torno a fare il barista o vado a Filicudi, stappo una buona bottiglia e mi metto a osservare il tramonto. Tanto ai David non mi invitano». Tutti nudi/ a Filicudi/ a mangiar pesci crudi, scriveva Benni. «Nudi non lo so, a mangiare, a bere e a stare insieme ai miei figli sicurament­e. Sono cresciuti bene. Io vengo da Milano, via Venezuela 4, il Bronx. Mi sono fatto strada da solo e mi ricordo molto bene di quando non riuscivo neanche a pagarmi il biglietto della metro. Loro, sventati i rischi dell’origine, sono cresciuti bene». Quali rischi? «Andiamo a Filicudi con un volo privato e a un tratto uno dei miei figli si lamenta: “Papà, quest’elicottero fa un rumore insopporta­bile, non ce n’è uno più grande?”. “Benissimo”, dico. “Comandante, atterriamo, spenga i motori”. Scendiamo a Catania, prendiamo un autobus per Milazzo, arriviamo dopo sedici ore. I ragazzi erano devastati. “Ma Filicudi è lontanissi­ma”. “Lontanissi­ma è la distanza che vivrete per tutta la vostra esistenza tra la realtà e i soldi che dovrete guadagnarv­i”. Sanno che non lascerò loro un solo euro in eredità. E quindi, di conseguenz­a, sapranno cavarsela benissimo». Diceva dei David. Non la invitano? «Non è un dramma. Ha ragione Fiorello, rispetto ai David sono più allegri i funerali. Comunque tempo fa mi trovavo in America da qualche mese, mi viene malinconia del mio Paese. Mi dico: “Possibile che non venga mai chiamato a dare un premio in nessun contesto?”. Telefono al responsabi­le del David e mi sfogo: “Pur di non scegliere me avete messo in giuria qualsiasi decerebrat­o passasse di lì. Credo che sarei un ottimo giurato”. Aggiungo: “Perché non mi invitate?”. Passa mezz’ora e mi contatta Rondi: “Mi dicono che sei arrabbiato”. “Sono amareggiat­o, è diverso”. “A proposito”, mi dice, “per caso hai il numero di Polanski?”. “Certo”. Me lo dai?”. “No”. “Guarda che se viene gli diamo il premio come miglior film straniero”. Attacco e parlo con Roman. Lui ride: “Devono essere davvero impazziti per il film. Se vengo mi premiano, altrimenti no?”. Ci salutiamo. Passa mezz’ora e al posto di Rondi mi richiama quel verme con cui avevo discusso a inizio giornata: “Caro Luca, credo ci sia stato un equivoco, volevo chiederti se ti va di premiare Polanski”. Metto la pratica nelle mani di Roman che esagera. First class per me e per lui da Los Angeles. Albergo a Roma. Autista per 24 ore. Ai David sarei andato gratis, invece gli sono costato 50.000 euro». È mai tornato? «Non sono mai stato richiamato. Tempo fa ho chiesto due biglietti, me ne hanno dato uno e mi hanno messo vicino al cesso. Ho chiamato mia moglie e con lo smoking ancora addosso sono andato a cena con lei. Il David per anni è stato un merdaio retto dai voti finti. Lo sanno tutti, non lo dice nessuno. Adesso mi dicono che Piera Detassis lo stia ripulendo. Me lo auguro». C’è qualcuno che stima nel cinema italiano? «Qualcuno c’è. Stimo Pietro Valsecchi, un uomo generoso, un vero underdog venuto dal nulla che con Zalone il cinema italiano se lo è messo nel taschino. A Natale voleva uscire con 1.000 copie del film di Checco. L’ho chiamato e gli ho detto: “Pietro, così il 25 dicembre muoiono tutti. Non esagerare, metti da parte la hybris, non voler stravincer­e”. Mi ha dato retta. Purtroppo non gli hanno dato retta gli altri produttori, del resto l’Anica è sorda alle novità». Con questa intervista si è fatto qualche nuovo amico. «Negherò di aver detto qualunque cosa e forse negherò persino di chiamarmi Barbaresch­i. Il mio nome è Oscar Martello».

Ai David di Donatello non mi invitano mai, ma non è detto sia un male, ha ragione Rosario Fiorello: sono più allegri i funerali

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