MARCHIO DI UNICITÀ
Mai come nell’era dei social il nostro corpo è un affare pubblico. Anzi, uno «spazio» pubblico. La nascita dello skin advertising ne è la conferma. Questa branca del guerrilla marketing si serve di agenzie specializzate per «acquistare», seppur temporaneamente, zone dei nostri corpi per tatuaggi pubblicitari. Il fenomeno non dovrebbe sconvolgerci: negli anni, il tattoo da marchio ribelle è diventato un fenomeno di massa che ha conquistato aree sempre più vaste di popolazione e pelle, fino ad arrivare su mani, collo e viso.
Il tutto per poterci meglio raccontare al prossimo, persino con pittogrammi lontani dalla nostra cultura, come con disegni maori, giapponesi o mohave, appropriandoci così di messaggi e valori che riteniamo in sintonia con il nostro vero essere.
In più, catturare lo sguardo nello scroll infinito di Instagram è una richiesta social(e) da soddisfare a qualunque costo, anche cambiando i connotati: estrema, ma in ascesa, è infatti la body
modification, una pratica invasiva che contempla la tatuazione del bulbo oculare per avere uno sguardo da science fiction. Senza arrivare a tanto, si può optare per un decoro sul padiglione auricolare (sconsigliato però dagli agopuntori), all’interno delle dita (anche dei piedi), sul labbro interno inferiore (vedi l’emoticon del gattino di Miley Cyrus) o sulla lingua, zona che molti tatuatori si rifiutano di toccare perché dolorosa e delicata. Ma chi è deciso non teme sofferenza perché «il tatuaggio
della vita scorre sotto la pelle molto prima dell’incisione», come dice Gian Maurizio Fercioni (fercionitattoo.wixsite.com), decano del tatuaggio dal 1976. È il caso degli over 70, aspiranti tatuati in crescita: «Per le persone anziane è una scelta importante. Un’ottantenne è venuta a farsi prima la Madonna di Loreto, poi quella di Pompei e infine quella di Lourdes. Tra le amiche è stato un successo». Ma tra le categorie più nutrite figura ancora quella dei pentiti. In prima linea, i cuori infranti. A dimostrazione che solo un tattoo è per sempre.