CERCAMI SOT TO IL GHIACCIO
Siamo stati alle isole Svalbard, uno dei posti più inospitali della Terra. Qui Netflix ha girato alcune tra le migliori scene della sua nuova docu-serie Il nostro pianeta e Infinity ha depositato per l’eternità un capolavoro del cinema italiano in un hard disk a prova di apocalisse
Il futuro del pianeta, la bellezza degli orsi polari, che cosa ci aspettiamo per l’anno 3019: queste domande sono frutto di due viaggi alle isole Svalbard tra la fine dell’inverno e l’inizio dell’alba artica, quando la notte perenne lascia spazio alle prime ore di luce. In questo arcipelago tra Norvegia e Polo Nord l’umanità ha fatto ciò che talvolta le capita, nei periodi di crisi come questo: ha attrezzato una vera e propria arca
di Noè. Siamo venuti a vederla.
Le Svalbard sono uno dei posti più remoti della Terra. Longyearbyen è la comunità abitata più settentrionale del pianeta, l’aeroporto è composto da una pista ghiacciata, una stanza dove ritirare le valigie e una vetrata affacciata sulla fine del mondo. Anche se la temperatura è mitigata dalla corrente del Golfo, d’inverno si arriva a -30°: uscire fa lo stesso effetto di entrare in una base lunare. Le arche sono in realtà due: il Global Seed Vault, deposito a prova di apocalisse della nostra conoscenza agricola, e l’Arctic World Archive, scrigno digitale di preservazione per arte e cultura. Nel caso qualcosa andasse storto nel mondo, qui i sopravvissuti troverebbero le basi per ricominciare a coltivare la terra e leggere libri. Le due strutture sono una versione ghiacciata e terrestre del Voyager Golden Record: non per gli alieni, ma per i nostri discendenti, un monumento simultaneo al pessimismo e all’ottimismo umani.
TREMILA GIORNI PER UNA TERRA
Prima di raccontarvi cosa stiamo mettendo nell’arca delle Svalbard, dobbiamo parlare della sua fragilità. Ne avrete una percezione con Il nostro pianeta, docu-serie su Netflix dal 5 aprile, prodotta da Alastair Fothergill e Keith Scholey, narrata nientemeno che da David Attenborough. Gli otto episodi sono un’impresa da esploratori d’altri tempi: 3.500 giorni di riprese in tutti i continenti, dieci giorni di lavoro per ogni singolo minuto. È la squadra dei documentari Bbc come Pianeta Terra: il passaggio a Netflix non solo è segno dei tempi, ma anche figlio di un’urgenza narrativa. «Non ci bastava più la bellezza, volevamo fare un discorso sulle scelte. Quando abbiamo iniziato, un taglio ambientalista per una serie sulla natura sembrava rischioso, ora è perfettamente in linea coi tempi», spiega Fothergill, cineasta, esploratore, enciclopedia zoologica vivente. È atterrato con noi a Longyearbyen per mostrarci come ha girato l’episodio sugli orsi, che è un omaggio all’ideale custode dell’arca e un grido di allarme per il suo futuro. L’assottigliarsi della banchisa, il ghiaccio galleggiante, ne sta sconvolgendo le strategie di vita e predazione. Nel giro di poche generazioni il loro mondo è completamente cambiato.
Jason Roberts è un pilota di elicotteri, australiano, un passato da trader a Hong Kong. Arrivato qui negli anni ’90, si è specializzato in riprese artiche e antartiche, fa di fatto il pendolare tra i due Poli ed è la persona che ha guidato la troupe di Netflix, e noi, alla scoperta del paesaggio artico in motoslitta (strade qui non ce ne sono). È il giusto mix tra memoria storica e disincantato sguardo esterno. «Trent’anni fa l’ultima nave a novembre veniva salutata con una festa e se ne riparlava in primavera, il ghiaccio marino era costante». Svalbardposten (incidentalmente: la rivista più settentrionale al mondo) ha pubblicato la notizia di 96 settimane consecutive di termometro sopra la media. La temperatura è già cresciuta tra i 3 e i 5 gradi, secondo un rapporto del governo norvegese, un aumento più marcato che altrove perché ai Poli cresce più in fretta. La fragilità e la contrazione della banchisa rendono la vita atroce agli orsi, perché solo qui sopra possono cacciare le foche dagli anelli, loro principale preda.
Lo stesso fenomeno complica l’esistenza dei documentaristi. «Una sequenza di caccia completa di un orso polare non è mai stata filmata», mi racconta Fothergill mentre mi mostra un giovane maschio adulto a spasso, fiero e impassibile, a duecento metri da noi. «È il nostro santo Graal, questi animali non smettono mai di muoversi, o dormono o camminano, sono viaggiatori formidabili. Ed è l’unico predatore che apprezzi sinceramente la carne umana». Ci sono poche cose istruttive come smettere di sentirsi in cima alla catena alimentare. Per girare immagini fluide, Fothergill aveva montato la videocamera su un cingolato in grado di muoversi sul ghiaccio. Quando l’ha sentito spezzarsi, non ha fatto in tempo a maledire il climate change ed è saltato giù mentre mezzo e videocamera affondavano.
Le isole sono abitate da 3 mila orsi polari e poco più di 2 mila persone. I primi furono cacciatori e minatori, poi gli scienziati: sono stati loro a immaginare l’arca come la conosciamo oggi. Il Global Seed Vault c’è dal 2008, è gestito dal Crop Trust, una no-profit internazionale, e ha raccolto quasi un milione di semi, un doppio per quasi ogni pianta al mondo. Due anni fa, in una ex miniera di carbone, è stato inaugurato l’Arctic World Archive, un enorme hard disk nel permafrost dove la società norvegese Piql sta preservando opere d’arte, manoscritti, film, collezioni museali. Su una «pellicola» digitale praticamente indistruttibile.
Ogni anno si tiene una cerimonia con le delegazioni dei Paesi coinvolti. Le più fornite del 2019 erano (non sorprendentemente) Vaticano (60 manoscritti della Biblioteca apostolica, tra cui una delle più antiche copie dell’Eneide) e Italia. Tra i nostri tesori affidati al permafrost c’era il film Mediterraneo, restaurato in 4K da Infinity, dove è disponibile dal 21 febbraio (non è obbligatorio andare alle Svalbard per vederlo). MEMORIA MILLENARIA
Il supporto di Piql è garantito 1.000 anni, nemmeno una diminuzione del permafrost impatterebbe la conservazione. È un’approssimazione al ribasso dell’eternità, ma è comunque nove volte l’intera storia del cinema.
La cerimonia in sé è uno strano rito, nel quale i Paesi raccontano con orgoglio il proprio pezzettino di Storia digitalizzata, prima di percorrere i 300 metri verso l’interno della miniera con la pellicola: un gruppo di ricercatori dello Utah porta una
raccolta di canti della guerra civile, il Museu da Pessoa 10 mila video con le storie di altrettanti brasiliani, un progetto durato dieci anni, l’Agenzia Spaziale Europea i dati satellitari sul cambiamento climatico. Percorriamo il cunicolo e la luce sparisce, l’ossigeno diminuisce e si arriva alla stazione dei pompieri della miniera: è il cuore dell’hard disk ghiacciato. Le delegazioni posano il contenuto, foto di rito (non si vedrà niente, ma puoi mai non farla?) e ritorno alla luce viola dell’alba artica. La promessa è che fino all’anno 3019 qualcuno potrà fare questa strada, prendere le pellicole e guardarsi, che ne so, Mediterraneo. Il problema è se ci saranno ancora gli orsi polari, se ci saremo noi come umani e cosa avremo combinato del nostro pianeta. Le arche resisteranno, tutto il resto dipende da noi.