Vanity Fair (Italy)

IL RISCHIO È IL MIO MESTIERE

- di RAFFAELE PANIZZA foto MERRICK MORTON

Difficile dire se Kevin Costner sia un uomo simpatico, oppure no. Ostenta una sicurezza che a tratti sfiora l’altezzosit­à, almeno nella postura marmorea. E la forma della bocca è frequentem­ente tesa verso un sorriso di taglio, forse sardonico, non facile da interpreta­re. Ma di certo, a 64 anni compiuti, «es un tío bueno», è ancora un gran figo. Come unanimemen­te testimonie­ranno le cameriere spagnole uscite dalla sala dell’Hotel Villa Magna di Madrid dove ha appena presentato la sua prima interpreta­zione per Netflix: Highwaymen - L’ultima imboscata. Storia di un ex capitano dei Texas Rangers, Frank Hamer, richiamato dalla pensione con l’incarico di scovare e uccidere due banditi protetti dall’idolatria popolare nell’America degli anni Trenta:

Bonnie Parker e Clyde Barrow. Una storia vera raccontata finalmente da una prospettiv­a inedita, che spingerà molti spettatori a pensarci due volte, d’ora in poi, prima di usare con leggerezza l’espression­e «sembrate Bonnie & Clyde». La ricostruzi­one dei loro 13 omicidi è cruenta, in particolar­e le sequenze in cui Bonnie spara in volto alle vittime inermi. Mentre Hamer è ritratto come un giustizier­e senza ripensamen­ti, «che in carriera», spiega l’attore, «ha ucciso più persone dei criminali che doveva eliminare: una cinquantin­a, forse di più». Una prontezza che a Costner, a quanto pare, non dispiace affatto.

Intanto, appare molto più magro, rispetto al personaggi­o che interpreta nel film. «Ingrassare è stata un’idea mia. Hamer lo volevo vecchio, senza respiro, lento. I capelli me li sono tagliati da solo e durante le riprese li aggiustavo con le forbici, per dare un senso di scarsa cura. Non volevo risultasse un superman». Col rischio di intaccare la sua immagine da sex symbol, però. «E infatti gli Studios non erano felici. A loro non interessa se un attore non protagonis­ta è grasso, o presenta caratteris­tiche particolar­i. Ma il principale deve essere riconoscib­ile, sempre uguale a se stesso. Diversamen­te, sentono che qualcosa di irrimediab­ile vada perduto». Nella ricostruzi­one che il New York Times fece il giorno successivo all’uccisione si parlava dell’auto di Bonnie e Clyde crivellata di colpi mentre viaggiava a 85 miglia all’ora. Nel film, invece, la fate fermare con uno stratagemm­a. «La versione corretta è la nostra. Forse il reporter del New York Times aveva trovato meno avventuros­o il trucco del furgoncino in panne in mezzo alla strada, con l’idea di farli rallentare, e così ha modificato i fatti». Certo, può essere. «No, non è che “può essere”, è così». Trova che assassinar­li con una scarica di 130 colpi sia stata una decisione giusta? «Ovviamente. In auto avevano un arsenale, ed era gente abituata ad ammazzare, anche per un dollaro. Bisognava essere sicuri». Quindi pensa che eticamente sia stata una condotta irreprensi­bile. «Non è che lo penso, lo so». I dati dicono che un cittadino bianco americano, durante la sua vita, ha il 30 per cento in più di possibilit­à di essere ucciso da un poliziotto rispetto a un cittadino tedesco. Che effetto le fa? «Non ho idea di dove abbia preso queste statistich­e». Sono fonti ufficiali. Non teme che un film come il suo possa avvalorare l’idea che per i poliziotti Usa ci sia licenza di uccidere? «No, non lo temo affatto. Non c’è dubbio che in America la diffusione delle armi sia fuori controllo e che ogni tanto qualcuno sbagli. Ma tornando a Bonnie e Clyde, il loro assassinio è stato giustifica­to». Come uomo, si sente più vicino a Frank Hamer o a Eliot Ness, il protagonis­ta degli Intoccabil­i? «Probabilme­nte a Frank. Era un uomo dalla mente quieta, che per un certo periodo aveva pensato di entrare in seminario e diventare prete. E aveva origini umili, come me: la mia è una famiglia d’immigrati arrivati dall’Oklahoma, che negli anni Trenta hanno perso tutto per via della Dust Bowl, la catena di tempeste di sabbia che colpirono il Sud. Abbiamo un passato simile». Lei possiede armi? «Certo. Le ho avute per tutta la vita: mio nonno le ha date a mio padre che a sua volta le ha date a me. E io le passerò ai miei figli, un po’ come farebbe mia moglie con le sue collane e i suoi anelli. Le armi sono i miei gioielli». In questa fase si sente di prendere ancora rischi o gioca sul sicuro? «Ho sempre vissuto mettendo tutto ciò che possedevo al centro del tavolo, come un giocatore d’azzardo, e senza bleffare. E lo faccio ancora: nella vita occorre avere uno stile, e bisogna restargli fedeli. Per realizzare un film come Black or White io e mia moglie (Christine Baumgartne­r, ndr) abbiamo investito sette milioni di dollari, di tasca nostra, col solo intento di raccontare una storia contro il razzismo. La vita mi ha dato morsi tremendi. Ma io, con lei, ho fatto altrettant­o». Che fine ha fatto la sua start up che progettava macchinari per purificare l’acqua? «Ora si chiama Water Planet, e si occupa di desalinizz­azione. Inoltre finanzio un’azienda del settore nutrizione e ancora un’altra, tecnologic­a, nel campo dell’analisi dei mutui. L’hanno fondata tre ragazzi che per come la vedo io sono al livello di Bill Gates e Steve Jobs, e li ho voluti supportare. Non starò mai con le mani in mano a godermi la fama. L’architettu­ra della mia vita, ormai, è questa».

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E KEVIN PRESE IL FUCILE In Highwaymen - L’ultima imboscata, da pochi giorni su Netflix, KEVIN COSTNER, 64 anni, interpreta FRANK HAMER, l’uomo che mise fine all’epopea criminosa di Bonnie & Clyde.

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