Dumbo sono io
Come l’elefantino protagonista del suo ultimo film, il regista più gotico di Hollywood da bambino è stato un escluso, un diverso, un emarginato. Poi ha trasformato la sua stramberia in un vantaggio. E ha spiccato il volo
Dopo anni di psicoterapia, ne ha avuto abbastanza. Varcati i 60, Tim Burton si sente «completamente aggiustato». Mente. E non fa niente per nasconderlo: ride, spiritello magro dentro al suo completo nero, stirato non di recente, con i capelli all’aria, pettinati non di recente. Poi torna serio: «Ho imparato ad accettare che sono l’opposto di tutti gli altri: quello che per la gente è normalità, per me è follia. E viceversa… o almeno credo. Cioè… io non ho mai capito cosa significhi… cosa significhi la parola “normale”. Forse nessuno lo è».
Helena Bonham Carter, sua ex compagna ed ex musa (si sono lasciati nel 2014), prima di avanzare l’ipotesi che fosse affetto da una lieve forma di Asperger, lo aveva definito una
«casa per le frasi abbandonate». Ma il regista, appena insignito del David di Donatello alla carriera, non semina vuoti tra i suoi concetti incompiuti: li riempie di gesti.
Mentre racconta l’ultima impresa cinematografica, il remake in live action di Dumbo con protagonisti Colin Farrell, Danny DeVito, Michael Keaton ed Eva Green, sparpaglia braccia, mani