ANTONIO MONDA
Così porto Hollywood a Roma
«Se sente un rumore in sottofondo sono io che mi faccio la barba». Antonio Monda è un esperto – oltre che animatore «dell’ultimo salone culturale della città», come l’ha definito il New York Times, e giornalista, scrittore, professore, organizzatore culturale – di tempi morti. L’intervista si incastra tra la doccia, un consiglio di amministrazione, e una serie di telefonate «sotto» che frammentano il nostro dialogo. «La mia vita è complicata, e bellissima», mi spiega alla vigilia della quinta Festa del Cinema di Roma, dove è riuscito a portare il film dell’anno, The Irishman di Martin Scorsese. Non solo: quest’anno premierà con Wes Anderson la carriera di Bill Murray. Una scena che ricorda l’inizio delle meravigliose Avventure acquatiche di Steve Zissou, in cui lo stesso Monda, nella parte di se stesso, presenta, da direttore dell’inventato «Loquasto International Film Festival», proprio Bill Murray. Sono passati quindici anni da quell’immagine, che ora diventa realtà. Una cosa – quella di fare avverare le cose immaginate – che è successa spesso nella vita di questo signore che il 19 ottobre compie 57 anni e da 25 risiede a New York, «nove mesi qui, tre in Italia».
Quali altre cose immaginate sono poi diventate concrete?
«Su tutte, vivere a New York». Su Internet si può vedere il cortometraggio di Wes Anderson Mondo Monda, parodia del suo modo di intervistare. Mi consenta di farle una domanda «alla Monda». Almodóvar ha detto: «La vera autenticità non sta nell’essere come si è, ma nel riuscire a somigliare il più possibile al sogno che si ha di se stessi». Concorda? «Assolutamente. Ma credo anche nel concetto opposto. Come diceva Karen Blixen: “Quando gli dei vogliono punirci, avverano i nostri desideri”».
Lei che cosa sognava di fare da bambino?
«Raccontare le cose in cui credevo, incontrare i grandi personaggi. Mi sono laureato in Legge solo perché mia madre, quando mio padre, avvocato, morì, voleva che qualcuno portasse avanti lo studio di famiglia. Ma io non avevo né la passione né probabilmente il talento per fare quel mestiere».
La perdita improvvisa di suo padre, a 15 anni, la notte di Santo Stefano, come l’ha cambiata?
«Ha dato inizio alla mia vita di cinema. Con mio padre, che lavorava come un pazzo e forse anche per questo è morto stroncato da un ictus, avevamo questa abitudine di andare al cinema, era il nostro “modo”, la nostra intimità. Quando è mancato ho iniziato a chiudermi nei cinema tre volte al giorno. Mi mancava e cercavo di trovarlo lì».
Come sono i Natali da allora?
«Per rielaborare il lutto ho girato il mio primo film, Dicembre, nel 1990. È la storia di mia madre che rimane sola durante le feste natalizie. Straziante, soprattutto per la nostra famiglia, cattolica, per cui il Natale ha un valore vero. Alla fine si riesce a trovare una luce, perché quella festa è una nascita, porta alla salvezza. Insomma: se mi chiede se ho mai superato il dolore per la perdita di mio padre la risposta è no, è una mancanza enorme, però il Natale ha vinto, non è più legato a quella cosa, in casa nostra è tornata a essere una festa bellissima, con le canzoni, l’allegria».
Suo zio, il democristiano Riccardo Misasi, poi ministro dell’Istruzione e del Mezzogiorno, si prese cura di voi nipoti. Quanto l’ha aiutata?
«È stato un secondo padre, di fatto ci ha adottato, anche perché noi ci trovavamo in gravi difficoltà economiche. Uno dei miei primi lavori fu a Cinecittà, a fare l’assistente per i fratelli Taviani, volontario, non stipendiato. Anche se mi “assunsero” per motivi tecnici come fotografo di scena, che non ho mai fatto. Ero un ragazzo emozionato e completamente inadeguato».
Questa inadeguatezza non l’ha mai frenata? Sua moglie Jackie in un’intervista ha detto che a metà anni ’80, quando vi siete conosciuti, quasi non parlava inglese. Eppure è in quegli anni che lei realizza per Raitre delle interviste con i colossi della
cultura americana, da Saul Bellow ad Arthur Miller.
«È verissimo. Avevo una gran faccia tosta, se c’è una cosa che mi ha insegnato lA’ merica è che buttarsi è importantissimo. Certo, poi non devi essere un bluff, devi mantenere le promesse. Avevo 25 anni, mi appoggiavo alla sede Rai a New York, che all’epoca era molto importante, e riuscivo ad avere i contatti. Poi studiavo il personaggio, mi preparavo moltissimo e chiedevo l’intervista. Non c’erano i cellulari. Quando rientravo in albergo il concierge mi dava un biglietto e mi diceva: “L’hanno cercata Henry Kissinger, Barbra Streisand e Bernard Malamud. Scusi, ma lei chi è?”».
Ed è lì che inizia la sua attività di «networking», ossia di fare rete, con i pranzi della domenica?
«Preferisco chiamarle “sinergie”. Comunque no, quello è iniziato dopo il 1994, quando ci siamo trasferiti da Roma a New York, con le gemelle di un anno e la tata pagata da mia madre. Non potevamo permetterci un affitto e quindi ho lavorato
La prima regola del «cenacolo» è che non si parla del «cenacolo», come in Fight Club. Niente foto, video, social
come superintendent in un condominio per cinque anni, mentre già lavoravo all’università e già ricevevamo in casa. Magari non subito, ma dopo qualche incontro, li invitavo a pranzo a casa mia. Loro, un po’ presi di sprovvista, un po’ intrigati, un po’ perché cucinava mia moglie e questo li faceva impazzire, venivano. Io passavo dal pulire le scale e riscuotere gli affitti alle conversazioni sulla letteratura con Philip Roth».
Quando ha capito che aveva svoltato?
«Il mio stipendio all’inizio era di 500 dollari al mese, ci manteneva mia moglie che aveva un impiego fisso. Poi nel 1999 sono diventato professore a tempo pieno e nel 2003 ho vinto la cattedra a vita alla New York University. Nel 2000 ci siamo trasferiti nella nostra attuale casa a Central Park, che ci possiamo permettere perché c’è un affitto bloccato, che aumenta ogni due anni di molto poco».
Ha praticamente inventato il concetto di ricevere, a New York. Non vuole che si chiami «salotto», giusto?
«Preferisco la parola “cenacolo”, che è un incontro a cui si va solo per il piacere di scambiarsi delle idee. A New York ci sono decine di feste ma si
tratta per la maggior parte di party a cui si va per apparire, o con il business sullo sfondo».
Ai suoi pranzi della domenica, quante opere d’arte sono nate?
«Ho assistito alla nascita di molte idee, come quando al Pacino voleva assolutamente conoscere Philip Roth. Li invito a cena. Si incontrano. Pacino gli va incontro e dice: “Sono Al”. Roth non muove un muscolo. Pacino aggiunge: “Sono Al Pacino”. E Roth: “So chi sei”. Dopo qualche giorno mi chiama: “Ma lo sai che quello vuole fare un film dal mio romanzo?”. Così è nato il film The Humbling. Però chi viene da me sa che è una cosa calda, in famiglia, non si parla di affari. Questa è stata un’eccezione».
Però il «colpaccio» di presentare The Irishman di Scorsese a Roma...
«Certo, Martin è venuto sei, sette volte a mangiare da me quest’anno, io gliel’ho chiesto incessantemente, e lui ha capito quanto lo desiderassi… Siamo amici, non fa testo».
Quali sono le regole del «cenacolo»?
«La prima regola del “cenacolo” è che non si parla del cenacolo, un po’ come il Fight Club. Non si fanno foto, né video, e tanto meno si condividono sui social».
Come si fa con i cellulari? Li sequestrate?
«È successo solo una volta che una persona abbia fatto un video e rotto l’intimità: non è stata più invitata. Diciamo che bisogna stare attenti a chi si autoinvita, perché chi viene sa che non è il caso. Se Jake Gyllenhaal è in città e vuole passare, sa che il giorno dopo nessuno lo saprà. Sono nati anche degli amori a casa mia...».
Amori ufficiali o clandestini?
«Entrambi».
Quelli ufficiali?
«Non posso dire nulla».
Mi dica almeno se i rituali sono sempre gli stessi: ogni domenica a pranzo, massimo 12 invitati, cucina sempre sua moglie ma lei fa la spesa.
«Ci sono due modalità: la prima è il pranzo della domenica, ormai solo due volte al mese e con 12 massimo 14 invitati se mettiamo la prolunga, stando molto attenti a non essere 13. L’altra è la festa grande, quattro volte l’anno, in piedi, con 90-150 invitati. Fa tutto Jackie, senza mai un catering. Solo per i party più grossi, tre camerieri e un lavapiatti».
Avrà un taccuino per i dettagli dietetici degli ospiti: Martin Scorsese odia la cipolla, Donna Tartt è vegetariana, per Don DeLillo non troppo sale…
«Esattamente. Nel dubbio si fanno due primi e due secondi, si evita il maiale se ci sono prescrizioni religiose eccetera. Nel frattempo io mantengo la mia routine. Mi sveglio alle 6 – vado a dormire presto, massimo alle 11 di sera – preparo la tavola, faccio le ultime pulizie, la doccia, alle 9.30 sono a messa a Sant’Ignazio, a Park Avenue, la chiesa dei Kennedy. All’una e mezza arrivano gli ospiti».
C’è qualche regista o scrittore che non è mai venuto e che amerebbe avere a tavola?
«Joan Didion, ma so che non sta bene...».
Sono mai venuti i reali inglesi?
«Mai».
Donald Trump?
«No. Perché non è di Manhattan, è del Queens». (Ride).
Il ricevere, e il cinema, sono esperienze analogiche, novecentesche, che poco hanno a che fare con le nostre vite sui social.
«Infatti ci gioco, non so curarli come si deve e su Instagram ho solo tremila follower».
Pochi, per uno come lei che con sei gradi di separazione è collegato a chiunque.
«Vero, ma non ho tempo. Non ho nemmeno la televisione, e non per una questione di snobismo, è che devo rinunciare per poter fare tutto il resto».
In decenni di frequentazioni con grandi artisti, qual è la lezione che ha imparato?
«Ne ho in mente sempre due. Primo Levi, che ho incontrato a Torino poco prima che si togliesse la vita, mi ha detto: “Le do un consiglio impossibile: non abbia pregiudizi”. Philip Roth, invece, mi ha lasciato un undicesimo comandamento: “Non sottovalutare mai il bene che hai”».