Vanity Fair (Italy)

RONAN FARROW

- di SILVIA NUCINI foto MICHAEL WILLIAMS

Ciò che non sapete sul #MeToo

Spie, tradimenti, minacce e confession­i: non sono gli ingredient­i di un nuovo thriller, ma della lunga inchiesta che ha acceso le polveri del #MeToo e che ora è diventata un libro dal titolo Predatori.

Lo abbiamo letto in anteprima e ne abbiamo parlato con il suo autore. Che qui ci racconta del coraggio delle donne, di un senso di colpa che si è portato dietro troppo a lungo.

E di una proposta di matrimonio arrivata tra le righe

Domenica pomeriggio. Devo mettermi in contatto con un numero a New York, ma per due volte mi comunicano variazioni del numero stesso. L’ultima prevede che io chiami un server italiano, digiti un codice segreto attivo solo per 45 minuti, rimanga un po’ in attesa ascoltando una musica da ascensore e poi venga collegata con il mio interlocut­ore, Ronan Farrow.

Trentun anni nascosti sotto una faccia che definire angelica è una semplifica­zione, Farrow è figlio dell’attrice Mia Farrow e del regista Woody Allen (ma per le illazioni vedi box a pag. 76) e soffre da sempre della sindrome «il più giovane della stanza». Nella sua, di stanza, racconta la mamma Mia, si chiudeva a leggere La metamorfos­i di Kafka. «Era alle elementari», specifica. Lo iscrivono al college a 11 anni, a 15 si laurea in filosofia. A 22 anni prende un dottorato in legge a Yale e lavora prima con Obama e poi con il segretario di Stato Hillary Clinton. A 25 ha voglia di riprendere gli studi, vince la borsa di studio Rhodes e va a Oxford dove fa un dottorato in filosofia. Intanto compare nella lista dei meglio vestiti al mondo di Vanity Fair America. Mentre è a Oxford pensa che non gli dispiacere­bbe fare il giornalist­a. Torna in America, comincia a lavorare e, quattro anni dopo, vince – insieme alle colleghe del New York Times che hanno indagato sullo stesso scandalo – un Pulitzer grazie all’inchiesta, pubblicata sul New Yorker, in cui svela la storia di molestie e abusi sessuali a carico del potentissi­mo produttore di Hollywood Harvey Weinstein – faccia da orco, modi arroganti – accusato da un’ottantina di donne tra cui l’attrice e regista Asia Argento.

A meno di due anni dall’uscita di quell’articolo – seguito da molti altri approfondi­menti su nuovi filoni della storia – Farrow pubblica Predatori, una monumental­e inchiesta nell’inchiesta in cui il giornalist­a racconta i retroscena della sua attività investigat­iva e della complicata rete di pressioni, connivenze, ricatti e spionaggio messa in moto da Harvey Weinstein per intimidire le vittime delle sue aggression­i e ostacolare il lavoro investigat­ivo del giornalist­a. Nel libro, sottoposto al rigoroso fact checking (si racconta di una telefonata di controllo con la Nbc durata 10 ore), si fanno tutti i nomi e i cognomi e c’è chi, come il pluricitat­o Dylan Howard, vicepresid­ente del gruppo Ami che controlla numerosi media americani, come il National Enquirer, ha cercato di bloccarne la pubblicazi­one, minacciand­o di fare causa alle librerie che lo hanno ordinato.

È soprattutt­o per tutelarsi da ogni rischio di censura preventiva, e per proteggere alcune testimonia­nze inedite, che sto chiamando New York componendo il prefisso di Roma.

La voce allegra, ma stanca, che mi risponde all’altro capo di questa triangolaz­ione telefonica è la fotografia perfetta dello stato d’animo di Farrow. «Sono esausto, ma orgoglioso. Questo libro è un atto d’amore e di coraggio da parte delle donne che mi hanno parlato senza risparmiar­si».

Tra queste c’è anche sua sorella Dylan, che da tempo accusa il loro padre, Woody Allen, di averla molestata quando aveva sette anni. Farrow, che non ha rapporti con il regista, racconta che quando Harvey Weinstein viene a sapere che il giornalist­a sta indagando su di lui, chiama Allen per chiedergli una mano. «Gesù, mi dispiace tanto. Buona fortuna», risponde il regista. E sembra di vederlo pronunciar­e questa frase che assomiglia alla battuta di un suo film.

Predatori, in inglese, si intitola Catch and Kill che è il metodo che utilizza una certa stampa per insabbiare gli scandali, tenendo le notizie nel cassetto per proteggere i colpevoli. Crede che aver smascherat­o questo meccanismo cambierà il modo in cui i media gestiscono certe notizie?

«Il metodo “Catch and Kill” è metafora di un meccanismo più ampio in cui sistemi giuridici, politici e di informazio­ne cospirano per mettere a tacere la verità e intimidire chi la cerca. Prima di pubblicarl­e, non so mai che effetti sortiranno le mie inchieste, ma credo che le cose che racconto in questo libro siano inoppugnab­ili e creino un precedente dal quale in poi dovremmo sempre chiederci, quando abbiamo

Quando lo vedo mi fa sentire piccola, stupida e debole. Dopo lo stupro ha vinto lui

a che fare con certi mondi, se chi ha il potere non stia dirottando il sistema e manipoland­o l’opinione pubblica».

Harvey Weinstein aveva creato, per proteggers­i, una rete di spionaggio di cui lei stesso è stato vittima. Nel libro racconta di aver cambiato temporanea­mente casa durante l’inchiesta. Ha temuto davvero per la sua vita?

«Sono stato sempre molto consapevol­e che il rischio che correvo era relativo: vivo in un Paese in cui i giornalist­i sono protetti dal Primo Emendament­o. E so bene che, se facessi inchieste sul potere in Pakistan o in Russia, correrei rischi molto più seri. Ma le complicate strategie – con coinvolgim­ento della società di intelligen­ce privata israeliana Black Cube – che sono state messe in atto nei miei confronti sono la dimostrazi­one di quanto la libertà di stampa sia fragile anche nei Paesi democratic­i. Non penso che i giornalist­i americani dovrebbero essere sorvegliat­i, intimiditi e minacciati. E invece succede. Abbiamo bisogno di editori e direttori coraggiosi, come quelli del New Yorker che hanno salvato e pubblicato la mia inchiesta. Cosa che invece la Nbc, l’emittente televisiva per la quale lavoravo durante la mia indagine, non ha fatto. Bloccando, con la scusa che non fosse completo, la messa in onda del servizio».

Nel libro non cita mai il movimento #MeToo. Perché?

«Ho detto spesso che ammiro le attiviste che stanno cercando di attuare un cambiament­o della società e considero

Asia Argento su Harvey Weinstein

Tarana Burke, la donna che ha coniato il termine #MeToo, un’eroina. Tutto questo esiste ed è il fondale delle mie storie, del tributo al coraggio delle mie fonti. Penso, come recita la vecchia regola del giornalism­o, che sia sempre meglio “show, don’t tell”, mostrare piuttosto che raccontare. Mi sembra più utile, per esempio, parlare di mia sorella Dylan che prende coraggio e dà la sua prima intervista televisiva, piuttosto che dedicare un capitolo al movimento».

Parlando di Dylan, lei ammette, come fratello, di non aver fatto abbastanza.

«Per me era importante che potessi scrivere liberament­e delle accuse di mia sorella e anche che potessi ammettere che sono una di quelle persone che vivono accanto a una vittima e le dicono di lasciare perdere, e tacere. Per molti anni ho ritenuto ciò che era accaduto un disturbo, qualcosa che la stava distraendo dal farsi una vita e una carriera, e che la stava lentamente distruggen­do. Ma quando finalmente l’ho ascoltata davvero, e ho capito quanto fossero convincent­i le sue affermazio­ni, mi sono reso conto che il suo rifiuto di tacere era un grande gesto di coraggio. E che io avevo sempre sbagliato».

La sua inchiesta su Weinstein e anche questo libro, i cui disegni all’inizio di ogni capitolo sono di Dylan, costituisc­ono per lei una qualche forma di risarcimen­to nei confronti di sua sorella?

«Questa vicenda è qualcosa che va oltre lei e oltre me, e riguarda lo schema, che ho ritrovato praticamen­te in ogni storia che ho raccolto, in cui c’è una donna che vuole parlare e un fratello, un padre, un compagno che le dice di tacere. Spero che quello che è accaduto a me possa essere d’esempio per altre persone».

Harvey Weinstein, in una lettera inviata ai suoi capi alla Nbc, affermava che lei non fosse la persona giusta a cui lasciar fare questo genere di inchieste, a causa della sua storia famigliare. Non pensa, invece, che sia vero il contrario, che lei è stata la persona giusta proprio per la sua storia famigliare?

«Tutti i giornalist­i che negli anni hanno cominciato a girare intorno a questa inchiesta, senza poi riuscire a portarla a termine, si sono molto appassiona­ti e sono diventati sensibili al tema. Se qualcuno si appassiona e si ossessiona, mi sembra solo il segno che è un bravo giornalist­a. Non credo proprio di aver avuto un conflitto di interessi nel trattare questa storia, sempliceme­nte, come ogni giornalist­a che mette il dito dove qualcuno non vorrebbe, sono diventato oggetto di attacchi personali. È brutale e scorretto, ma fa parte dei rischi del mestiere. A guardarle in retrospett­iva, quelle illazioni non sono altro che i tentativi di un uomo disperato pronto a tutto pur di farmi tacere: purtroppo

Abbiamo saputo del grande servizio a cui stai lavorando .... A dire il vero per noi è un problema Nick Merrill, addetto stampa di Hillary Clinton, a Ronan Farrow

ha trovato chi lo ascoltava alla Nbc. Il sistema dei predatori si sosteneva».

Nel libro, tra le altre, c’è la dolorosiss­ima testimonia­nza di Brooke Nevils, sua ex collega alla Nbc la cui denuncia, finora rimasta senza nome, portò al licenziame­nto di Matt Lauer, star del programma televisivo Today, che abusò di lei ripetutame­nte e violenteme­nte.

«Il suo è un caso emblematic­o di come certi fatti non vengano poi negati da chi li ha commessi, ma gli venga attribuito un senso diverso. Lauer disse di avere avuto con lei una relazione. Ma la donna ha argomentaz­ioni convincent­i, basate su elementi concreti, per affermare che quello che è accaduto non è stato affatto consensual­e. Quindi gravissimo».

La storia è piena di artisti e personaggi famosi, che non abbiamo mai smesso di ricordare e omaggiare, nonostante in privato fossero esseri umani deplorevol­i. È giusto separare il valore artistico e politico delle persone dalla loro vita privata? E perché, invece, in questa vicenda alcune persone sono state ostracizza­te e condannate all’oblio?

«Penso ci siano forme di potere e privilegio che alleggeris­cono alcuni dalle loro responsabi­lità: i soldi, il successo nelle arti o in campo scientific­o. Si trova sempre una buona scusa quando il sistema si corrompe, così i criminali possono agire indisturba­ti, fare del male ad altre persone, quando è evidente che andrebbero, invece, fermati. È un problema culturale generale, non solo del mondo artistico: si chiude un occhio di fronte ai potenti. Io non credo, come giornalist­a e come avvocato, che dovremmo mai proteggere dalle loro responsabi­lità le persone, anche se sono dei grandi talenti. La legge deve essere ugualmente dura verso chi ha potere e chi non ce l’ha, verso chi eccelle in qualcosa, come verso chi non sa fare nulla».

Dopo l’esplosione del #MeToo si è fatto un gran parlare, in Italia e in Europa, di come la linea di demarcazio­ne tra seduzione e molestia sia stata confusa dall’atteggiame­nto radicale della corrente americana del movimento. Che cosa ne pensa?

«Le mie inchieste parlano di accuse serie e circostanz­iate di abusi sessuali».

Una molestia è tale ovunque o cambia a seconda del contesto culturale in cui avviene?

«Sono un avvocato, tendo a usare le parole secondo il loro senso da un punto di vista legale. Se vuole sapere se i contesti culturali modificano, nel tempo, il senso alle cose, la risposta è: certamente».

Gli atteggiame­nti predatori sono sempre esistiti o Weinstein e gli altri sono figli della nostra cultura?

«Sono sempre esistiti e le donne hanno anche sempre parlato. La differenza, ora, è che vengono ascoltate».

Aver scoperchia­to questo verminaio ha cambiato il suo modo di guardare alle cose?

«Non avrei mai scritto Predatori se pensassi che è una storia senza speranza. Questa speranza me la danno persone come Sleeper, la fonte segreta – posso solo dire che è una donna e che per me è diventata un’eroina del #MeToo – che mi ha aiutato, dall’interno, a scoprire le attività di spionaggio di Black Cube o come Igor Ostrovskiy, investigat­ore privato

(la sua bio di twitter recita “investigat­ore con una coscienza”, ndr) incaricato di pedinarmi che, a un certo punto, ha capito che cosa stava facendo e mi ha contattato per dirmi che era emigrato in America ispirato da certi valori che stava infrangend­o. Questa non è solo una storia che parla di come si possa occultare la verità, ma di come, ogni volta che è avvenuto qualcosa di sbagliato, ci sia stato un testimone disposto a denunciare».

Il libro contiene una proposta di matrimonio al suo compagno Jon Lovett.

«Ho voluto far vedere che cosa significa lavorare a inchieste così impegnativ­e, e non potevo nascondere quanto il lavoro avesse messo a repentagli­o la mia relazione. Io, come tutti quelli che svolgono profession­i complicate, ho bisogno del sostegno di chi mi sta intorno, e Jon è stato la mia forza. Quindi sì, gli ho chiesto di sposarmi. Lo ha scoperto leggendo le bozze del libro. Fortunatam­ente mi ha detto di sì». ➺ Tempo di lettura: 12 minuti

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Ronan Farrow, 31 anni, è avvocato e giornalist­a. Figlio di Mia Farrow e Woody Allen, nel 2017 ha pubblicato un’inchiesta sugli abusi sessuali perpetrati da anni dal produttore cinematogr­afico Harvey Weinstein e ha vinto il Premio Pulitzer. Lavora per il New Yorker e per Hbo.
FIGLIO D’ARTE Ronan Farrow, 31 anni, è avvocato e giornalist­a. Figlio di Mia Farrow e Woody Allen, nel 2017 ha pubblicato un’inchiesta sugli abusi sessuali perpetrati da anni dal produttore cinematogr­afico Harvey Weinstein e ha vinto il Premio Pulitzer. Lavora per il New Yorker e per Hbo.
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ATTESISSIM­O Ronan Farrow, Predatori (Solferino, pagg. 496, euro 19). Disponibil­e in Italia dal 17 ottobre, è il frutto di 2 anni di inchieste.

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