STEFANIA ROCCA
Diversamente dal suo personaggio teatrale, vittima dell’incomunicabilità famigliare, l’attrice nella vita non tace: su se stessa, a casa, e nelle questioni sociali. Senza perdere il sorriso
Quando il silenzio fa male
Spesso anche le case più calde hanno inverni dentro. E così nel tempo diventano come quelle fredde, luoghi orribili, oltre ogni apparenza: con la sembianza del riparo e la ferocia della prigione. Stefania Rocca conosce il silenzio grande «che può riempire le stanze dove le nostre vite scorrono e mutano negli anni, dove si fanno i conti con i propri fantasmi, con se stessi e con l’altro». E lo porta in tournée teatrale prestando il suo corpo e la sua voce a Maurizio De Giovanni, autore, e ad Alessandro Gassmann, regista, che hanno voluto raccontare su un palcoscenico, con la commedia intitolata Il silenzio grande, appunto, la poesia, il riso e il dolore del nostro primo nucleo: la famiglia.
«Rose, il suo personaggio, accusa il marito, Massimiliano Gallo, di disinteressarsi da sempre − preso dalla sua scrittura, che mette davanti ai bisogni dei loro figli − di quel che è accaduto e accade tra quelle mura. O accusa se stessa di avere taciuto troppo a lungo, di non aver parlato quand’era il momento? Come un vulcano entra nella sua camera riversandogli addosso la frustrazione di essere lasciata sola ad affrontare tutto. Ma in fondo non è quello che succede a ognuno di noi, di specchiarci e di trovarci a tratti cattivi, cinici, schiavi dei bisogni imposti da un’economia che ci sovrasta, lasciandoci con una fetta per il privato sempre più stretta? Perseveriamo, fino a quando si rischia che diventi troppo tardi».
Uno spettacolo con colpi di scena che invita a non ingoiare più voci piccole che poi in noi − sempre − fanno eco e crescono in fretta o piano e, senza che ce ne accorgiamo, una volta diventate giganti sono loro a governare la nostra storia, a decidere di umori e disamori.
Interpretare questo spettacolo, di che cosa le ha fatto venire voglia? «Di dire: “Godiamoci quello che abbiamo finché ci siamo, non lasciamoci distrarre dai rumori circostanti, dagli adempimenti quotidiani e dalle burocrazie inutili, e usiamo l’autenticità contro quello che invece non ci va giù: è l’unica strada per salvarsi”».
Ognuno di noi se chiude gli occhi lo sa quando si è ritrovato nel suo «silenzio grande». «Fu quando lasciai i miei, nel post−adolescenza, e iniziai da sola a cercare un’indipendenza, a capire di che cosa sarei stata capace senza protezione, senza cordoni ombelicali, nella cosiddetta “età adulta”. Lì sì che si è creato un silenzio grande. Ed è stato fondamentale per riuscire a staccarmi. Se non metti una distanza come fai a staccarti? Certo non è stato senza dolore, ma in me avevo la sensazione che così doveva essere e che comunque nessuno mi avrebbe mai portato via gli affetti. E infatti li ho recuperati sulla linea della cronologia».
Sposata con il presidente della Camera della Moda a Milano Carlo Capasa (si sono conosciuti a Parigi, «il 14 luglio, giorno della presa della Bastiglia, nel 2005», nozze in segreto a New York nel 2014), madre di due ragazzi (Leone, del 2007, e Zeno, del 2009), ormai i suoi uomini al massimo rischiano (se qualcosa rischiano) docce fredde a ripetizione. «Perché sono una donna molto diretta, anche nei sentimenti. Cerco sempre di esprimermi nella verità di quello che penso. Se qualcuno mi ferisce o qualcosa non mi torna, se semplicemente non ne ho voglia, lo dico. Essere impulsiva mi aiuta a non mantenere troppi silenzi, e quindi a non cadere nell’incomunicabilità».
Come ogni nato prematuro a questo mondo, Stefania ha fretta e fame: «Io sono nata di sette mesi e lo scoprii da grande, a bordo vasca di una piscina durante un rebirthing, tecnica che parte dalla convinzione che tutto in noi è registrato: una voce ci teneva avvolti nell’acqua invitandoci a sentire come si stava bene lì, io al contrario no, e una volta uscita vidi una luce abbagliante proprio come quando arriviamo qui per la prima volta, e capii di averlo fatto prima del termine». Da ragazza ha studiato allA’ ctors Studio di New York e da attrice ha poi lavorato a lungo all’estero: in Inside/Out prodotto da Jean-Luc Godard nel 1997; nel Talento di Mr. Ripley, 1999; con Kenneth Branagh in Pene d’amor perdute nel 2000; nel 2000, al fianco di Cate Blanchett in Heaven di Tom Tykwer; poi in Mary, nel 2005, e in Go Go Tales, 2007, di Abel Ferrara.
E così, oltre che in teatro, la vediamo in tv a interpretare la stilista Krizia in Made in Italy di Ago Panini e Luca Lucini, attualmente su Amazon Prime. «Mia sorella faceva l’indossatrice e l’ha conosciuta personalmente. Io ho amato il suo essere donna innamorata del proprio mestiere, appassionata, determinata, precisa, perché la cura è questione di
millimetri. E anche il femminile che si mostra nell’estetica di classe, potente e sfacciata, delle sue visioni e collezioni. Ho amato la sua difesa di genere, il non avere paura del giudizio, di piacere o non piacere, il buon uso della dolcezza, vera ma che non scalfiva la durezza di una donna che comunque andava dritta per la sua strada senza farsi troppo influenzare, se non da quello che percepiva lei». Ambientato negli anni Settanta (che è l’epoca dell’infanzia, per Stefania, delle contestazioni e delle rivoluzioni): «Proprio in questi giorni ho ritrovato una foto scattata quando ero alle elementari. Mi ha divertito l’abbigliamento: avevano ragione, a chiamarmi Christiane F. di Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino, con quei capelli scesi sulla maglietta che portavo, insieme ai jeans a zampa. Ero una sottiletta: magra e lunga. A Torino il fermento sociale e politico si sentiva nell’aria. Lo capivo da Renzo e Lucia (come nei Promessi sposi, ma separati), mio padre dipendente Fiat e mia madre modellista, che non mi lasciavano tornare sola da scuola quando la tensione non si fermava ai Tg della sera ma penetrava anche i nostri giorni. Però erano tempi anche pregni di ideologie, aspettative e aspirazioni. E poi c’era il rock and roll».
C’era tanta polizia, anche. Polizia che ora ritorna nel suo lavoro, grazie al ruolo che ha in Cops, la serie di Luca Miniero per Sky Cinema al fianco di Claudio Bisio: «È la storia di una banda di poliziotti in una questura nella provincia pugliese. Un giorno arriva il capo commissario che ne annuncia la chiusura per tagli voluti dall’alto. Pur di non perdere quel posto, gli agenti iniziano a inventarsi dei piccoli reati. Sono antieroi pieni di difetti ma con una grande umanità, come siamo capaci d’essere solo noi italiani».
Prima di salutarci, ricordiamo che circa un anno fa ci eravamo lasciate che sognava. «Una femmina al potere: qualcuna avanti negli anni, ma giovane nella visione. Una Andy Warhol: pop, attenta alla cultura, all’educazione, alla creatività, che ormai hanno i caratteri della resistenza. Una che non s’incravatti come un uomo per prenderne i poteri». Diceva anche: «Se incontrassi davvero Conte, Di Maio o Salvini, chiederei qual è il disegno, la strategia».
Come la vede, oggi che qualcosa è cambiato? «Racconta una leggenda di antichi indiani d’America: gli uomini hanno perso le istruzioni. Dovremmo prenderci lo spazio per una riflessione, e recuperare il rispetto: per il nostro pianeta, per noi stessi e per le diversità. “Diversity and inclusion”, tema che ho portato anche al Festival di Otranto, di cui curo la direzione artistica. Se dovessi esprimere un desiderio per il 2020, vorrei potermi fare un giro in Amazzonia e respirare ancora ossigeno».
Troppo tardi, forse. «Non sono d’accordo: è una giustificazione che ci diamo per non agire, chiediamoci, piuttosto, che cosa posso fare io, nel mio piccolo: “Non consumo l’acqua, evito di comprare la plastica, uso la classica borraccia, faccio la differenziata”. Onoro il “ricicla, ripara, riutilizza”. Come un rito che diventa quotidiano e alla fine non ti fa più neanche fatica. E cerco sempre di sorridere agli altri».
Come sarebbe andata se non avesse abbandonato a 12 esami e l’avesse presa, quella laurea in Psicologia, e fosse diventata −come doveva − una tutrice dell’età evolutiva? «Non lo so, ma comunque non mi immaginerei tanto lontana da come sono ora. Invece di avere sette libri di cinema, due romanzi e tre sceneggiature sulla scrivania terrei manuali di psicologia. Porterei la mia curiosità in quest’altra direzione, ma sempre su materie interiori. In fondo è l’atteggiamento che hai verso quello che fai a definirti, non quello che fai».
Paure le restano? D’invecchiare? «No: è un naturale procedere con cui convivo, diciamo, piacevolmente. Me ne sono fatta una ragione: grazie ai miei figli, che li vedo crescere, prendere la loro forma. La malattia, quella mi spaventa di più. Ma cerco anche di non pensarci. Perché se no mi ritroverei a procedere condizionata. Quando c’è solo da essere fatalisti. Il calcolo delle probabilità parla chiaro: la vita è solo una questione di culo».
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