Vanity Fair (Italy)

BENJI & FEDE

In pochi ci credevano. Eppure Benji & Fede pubblicano il quarto disco: frutto di fatica, fedeltà e buone vibrazioni

- di LAVINIA FARNESE servizio VALERIA SEMUSHINA

La rivincita dei due «bei faccini»

Le nuove generazion­i devono sempre «difendersi» da quelle passate, che scambiano per spavaldi e inconsiste­nti i vent’anni che anche loro, un tempo, hanno avuto. Vent’anni che, in Benji e Fede, hanno occhi spalancati e in disarmo, come a dire: «Continuate pure a sparare, signori, che niente ci può più ferire». Gli hanno detto di tutto. Che erano solo due bei faccini. Che sarebbero stati una meteora. Che se lo sognavano, un secondo album di successo, figurarsi un palazzetto pieno. Che le radio li avrebbero snobbati, che un flop li avrebbe rivelati. Che «tra tre mesi» (quasi dieci anni fa) non ci sarebbero stati più.

«Gli attacchi gratuiti colpiscono duro, agli inizi. Offendono. Fanno male. Ma noi sin da subito ci siamo promessi che il negativo non costruttiv­o non lo avremmo preso a cuore. Di non reagire alle critiche irriverent­i. Di arrotondar­e le punte delle spade dimostrand­o ogni giorno il valore sacro della conquista. Hanno massacrato anche Lorenzo, agli esordi. Max Pezzali negli 883, Cesare Cremonini nei Lùnapop. La miglior risposta? Lavorare a testa bassa con la musica nelle orecchie, strutturan­doti a non ascoltare chi ti ripete che non vali, che non sarai mai abbastanza. Importi di mai iniziare a credere a quello che ti dicono gli incuranti di vocazioni, talenti. Anche quando questi coincidono con gli insegnanti a scuola. Quante volte l’abbiamo sentita: “Cantare non è un lavoro”. E invece».

Chi ci ha creduto ciecamente, d’altra parte. «I nostri genitori. Lì ci è andata un gran bene. Di umili origini (la mamma di Ben insegnante di inglese part time, il papà impiegato alla Conad; la mamma di Fede commessa, il papà aveva un negozio di abbigliame­nto, ndr), alla prima grande porta in faccia, quando inesperti ci siamo affidati a un produttore che voleva poi bloccarci per tre anni, hanno investito tutti i loro risparmi nella rescission­e di quel contratto, per farci tornare a credere nei nostri sogni, per la nostra libertà. Dodicimila euro, allora, erano un sacrificio. Oltre che un investimen­to cieco. Perché non è che fuori avessimo chi ci aspettava a braccia aperte. Abbiamo continuato a buttare video sul web, ad aprire i live di altri artisti, a pubblicare canzoni online». La fiducia nei figli. «Io vorrò dargliela, ai miei: la salvezza dalle mie mancanze, che vogliano diventare medici, ballerini, aprirsi un bar sulla spiaggia, o vivere con poco», dice Ben guardando avanti a chi ancora non c’è. «Il sangue l’ho ripreso dal mio babbo: anche lui faticando prima di ammalarsi fece di una passione, quella per gli abiti, la sua impresa», dice Fede, guardando indietro a chi non c’è più.

Fede ha avuto diversi lutti in famiglia, io ho avuto i miei momenti di depression­e

Due, che numero è. «Fondamenta­le, nella vita. Dividiamo soddisfazi­oni e problemi, il volo e il precipizio, pesi e leggerezze. Fede ha avuto diversi lutti in famiglia, io ho attraversa­to i miei momenti di depression­e anche profonda: abbiamo sempre trovato la spalla dell’altro su cui appoggiarc­i, fosse per ridere o piangere. Dove uno sbanda, l’altro timona, quando uno va giù l’altro tira su. Lo guarda negli occhi, gli dice: “Ci sono io per te”. O nei dubbi: “Siamo sicuri che ne valga la pena?”. Siamo complement­ari, non saremmo riusciti a stare insieme così a lungo, se no». Fu colpo di fulmine. «Ci scriviamo su Facebook, è il 2010, ci conosciamo nelle vacanze di Natale, quando vado a prendere Ben che atterra dallA’ ustralia e corriamo nella soffitta di un amico a Modena a registrare subito la nostra prima canzone, Quello che resta. Zero budget e videocamer­ina, ma eravamo già qualcosa». Uno su mille ce la fa. «Che poi intendiamo­ci su che cosa significa “farcela”. Per uno può essere diventare famoso, farsi tirare la giacca, per un altro diventare maestro di chitarra. Per noi farcela è scrivere quello che ci piace con intorno gli amici di sempre, la nostra famiglia: il ragazzo da cui siamo corsi a registrare il nostro primo brano è ancora nella nostra band, è lui che produce e sistema le voci».

I follower: definizion­e. «Oltre le visualizza­zioni, persone. E noi li abbiamo sempre trattati così. In che città volete che veniamo? E andavamo. Sorpresa: ci vediamo in piazza del

Popolo a Roma domani a quest’ora». Dopo certificaz­ioni oro, album doppi platini, podi in classifich­e vendite, e una pausa di tre mesi che ha portato al primo successo dell’anno, il singolo Dove e quando, colonna sonora dell’estate 2019 («Eravamo in un frullatore: promozione, tour, interviste. Così ci siamo fermati per smettere di procedere a ripetizion­e su sentieri tracciati, senza più accorgerci della nostra fortuna. Abbiamo lasciato i social, e così recuperato intimità e pasta delle cose»), ora è tempo di Good Vibes. «Un almanacco per il presente, guida in dodici punti alle vibrazioni positive, che sono come segnali radio sempre funzionant­i, e influiscon­o su ciò che sei, attrai e respingi. Lo abbiamo scritto senza filtri, con dentro un’altra luce».

Tatuaggi. «Sono una mappa di quello che siamo, di quanto abbiamo vissuto. Se leggi sulla nostra pelle trovi dischi, date, scatolette di tonno». E quando il corpo finisce? «Se ne

Siamo solidi, più di migliori amici, più di fratelli. La nostra è fedeltà assoluta

prende un altro. Ma no, dai, sui nostri c’è ancora margine d’azione. Eh Fede?». «Mi capita di tatuarmi spesso quando sono molto felice. Tengo molto al motto di mio papà, che era “Semper paratus”, “Sempre pronto”, un invito a tenere duro, a saper reggere qualsiasi accadiment­o, a rialzarsi se necessario, a non spegnersi mai. Se l’era tatuato anche lui. Diceva: “Il giorno che non ci sarò più, se ti sentirai giù per un motivo, abbilo sempre a mente”. Io avrei dovuto impararla, la lezione, ma non è facile». L’ultimo disegno: «Due palme, degli uccellini, 2801, che era il numero della stanza dell’hotel di Santo Domingo in cui ho trovato riparo quando mio papà è venuto a mancare, in cui ho fatto “il mio primo sorriso dopo” pensando: “Lui non vorrebbe mai vedermi così!”».

A casa, nessuno dei due sa lavare, stirare, cucinare: «Mangiamo spesso in hotel o al ristorante, o ce la caviamo tirando fuori dal frigo parmigiano reggiano, aceto, prosciutto, una banana». Gli amori-modelle, che si fanno spazio. Bella Thorne in Benji: «Mi ha insegnato che l’intelligen­za è fluidità e apertura, non il contrario, e l’ha fatto dopo una ex a cui invece è dedicata Tra lo stomaco e lo sterno, che parla dell’assedio della malinconia, chiuso anche l’ultimo capitolo di una relazione», Paola Di Benedetto in Fede: «Io tra un milione capto subito se una ragazza mi prende o meno. Sono un po’ sensitivo. Quando ho visto lei ho pensato: “Eccola, l’unica per cui potrei fermarmi”».

I gruppi come il loro, che però non ce la fanno a restare insieme, e perdono tutto. Spesso per la «sindrome di Yoko Ono», di una donna che irrompe e rompe gli equilibri. «Non abbiamo la sfera di cristallo, ma siamo solidi, e più di migliori amici, più di fratelli. Discutiamo su tutto ma non per soldi e visibilità. La nostra è una fedeltà assoluta: se uno si sente vuoto, l’altro lo riempie, se uno sbaglia, l’altro aggiusta, se uno si volta, l’altro lo sta seguendo. E nessuno dei due è tanto pazzo da rinunciare a un legame così». ➺ Tempo di lettura: 8 minuti

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Benjamin Mascolo, 26 anni, e Federico Rossi, 25. Si sono conosciuti nel 2010 in Rete, e l’anno successivo hanno formato il gruppo Benji & Fede.
foto MARCO IMPERATORE DUE DI DUE Benjamin Mascolo, 26 anni, e Federico Rossi, 25. Si sono conosciuti nel 2010 in Rete, e l’anno successivo hanno formato il gruppo Benji & Fede.
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