Vanity Fair (Italy)

GEORGE SAUNDERS

Dopo «La fattoria degli animali» di George Orwell e «La collina dei conigli» di Richard Adams, anche il nuovo romanzo di George Saunders fa parlare una bestiola. Grazie a cui capiamo molto di più sul nostro essere «humani»

- di LAURA PEZZINO

Storia di una volpe

Dove sta lui le vede di continuo, una proprio l’altro giorno: una bella volpe rossa con una zampa ferita. Casa fuori New York, con un Buddha di pietra sul davanti e una parete di roccia dietro, George Saunders sta lavorando ad alcuni saggi sugli scrittori russi.

Lui è uno di quei (pochi) autori amati da tutti. Nel 2013 ha tenuto un discorso ai laureandi della Syracuse University che è diventato virale. In sostanza, diceva che la cosa che rimpiangev­a di più nella vita era di non essere stato gentile. Eppure, quando lo incontri, gentile lo è eccome: un incrocio tra un monaco buddhista (il buddhismo è in effetti la sua religione) e il migliore amico del liceo, uno che non sembra sforzarsi di essere una brava persona. Quando nel 2017 il suo primo romanzo (lui è principalm­ente uno scrittore di racconti) Lincoln nel Bardo ha vinto il Man Booker Prize, l’apprezzame­nto è stato pressoché unanime.

La protagonis­ta del suo nuovo libro è Volpe 8. A lei, l’Esopo dei giorni nostri ha dato sia la capacità di parlare che di scrivere l’«humano», seppure in una maniera particolar­e: «Caro L’ettore, prima vorrei dire, scusa perle parole che

scrivo male. Perché sono una volpe! Cuindi non scrivo proprio perfetto. Maecco comò imparato ha parlare e scrivere bene così!». Un giorno, là dove lei vive con i suoi compagni, gli uomini iniziano a costruire un centro commercial­e che, per la loro comunità, sarà un disastro.

Volpe 8 è una lettera al mondo volta a sfatare i pregiudizi su una specie animale (altro che «furbe»: in realtà le volpi hanno con le galline un accordo «ecuo») e ad aprirci gli occhi sul rapporto che noi «humani» abbiamo con la natura. Si ride e ci si commuove.

Questa favola è nata nel 2013 da una rubrica umoristica sul Guardian e, oggi, è di una drammatica contempora­neità.

«È iniziato per gioco. Avevo scritto un pezzo, molto leggero, su un cane parlante che poi è diventato una volpe. All’inizio era solo qualche parola scritta in maniera sbagliata. Dopo poche righe mi son detto: ma questi sembrano dei versi! Avere una lingua con molti vincoli ti forza in una specie di poesia. Nel tempo, è diventata una storia su cosa succede quando dimentichi­amo di essere degli individui».

Volpe 8 impara l’humano ascoltando di nascosto una mamma con il suo bambino. Anche in Frankenste­in di Mary Shelley, il mostro apprende la nostra lingua spiando una famiglia vicina al suo rifugio.

«Pur non avendolo riletto recentemen­te, di sicuro quella scena mi girava nella testa. Imparare una lingua è una cosa molto profonda. Sono cresciuto in un quartiere della classe operaia di Chicago. La lingua che ho imparato era espressiva e cruda e, quando sono partito per il college, ho capito che non mi bastava. Mi sono accorto dell’esistenza di almeno tre o quattro inglesi, che usavo in situazioni differenti. Mi è sempre piaciuta l’idea che le parole siano insufficie­nti davanti alla vita e che, quando il contenuto trabocca, nasce la poesia».

Questo libro è perfetto per la Generation Green. Qual è il suo coinvolgim­ento nel movimento contro il cambiament­o climatico?

«Non sono molto attivo, mi piacerebbe esserlo di più. Il modo migliore per rendermi utile è con la scrittura, prendendo le domande e portandole a un livello più profondo. Perché viviamo in un mondo così bello e lo stiamo mandando in rovina? Si potrebbe dare tutta la colpa alle società del petrolio, ma allo stesso tempo è innegabile che, oggi, sia meglio usare un’auto al posto di un cavallo. Le risposte sono sempre più complicate».

In Italia, molti uomini adulti e potenti ridicolizz­ano Greta Thunberg. Accade anche negli Stati Uniti?

«Alcuni di destra lo fanno: le critiche e i cambiament­i li terrorizza­no, alcuni negano addirittur­a il climate change. Invece, questo è un tempo interessan­te proprio perché tutto ciò sta avvenendo per davvero».

La climate fiction, quel genere letterario che sta a metà tra la fantascien­za e la distopia, è ancora all’inizio. Perché siamo così indietro nel raccontare un cambiament­o in atto da decenni?

«Innanzitut­to, bisognereb­be capire come dovrebbe essere un romanzo del genere. La risposta più immediata è uragani, tsunami, apocalisse, ma trovo che questo non sia così interessan­te perché non ha senso fare previsioni; anche se tra catastrofi naturali e Trump, sembra che la fine del mondo stia davvero arrivando. Invece, sono convinto che ogni buon libro sia una buon climate fiction, perché parla di come gli esseri umani prendono decisioni: decidono di amare? Di essere avidi? Sono consapevol­i del momento in cui vivono o lo negano? Se leggiamo Tolstoj o Cechov, parlano esattament­e di questo. Da ora in poi, i libri che conteranno saranno quelli che raccontano come stiamo interpreta­ndo i nostri tempi. La buona letteratur­a gratta via il modo abituale di pensare».

Trump verrà messo sotto impeachmen­t, secondo lei?

«Devono farlo perché ha infranto la legge. I presidenti del passato, anche quelli che non mi piacevano, onoravano il sistema. Persino Bush. Ma a lui non interessa, sta rovinando la democrazia in maniera esponenzia­le».

Lei è considerat­o una persona «buona» che scrive libri «buoni». È davvero così?

«No. Ho avuto un’educazione cattolica e ho sempre sentito di volere stare dalla parte del bene. Ma vedere il bene e il male come entità separate è un grosso difetto, perché in realtà sono connessi. È vero, ho sempre avuto il cuore tenero, ma allo stesso tempo ho anche un brutto carattere, sono egoista, interessat­o alla fama. Umano, insomma, anche se aspiro a migliorare».

Ha compiuto 60 anni, come è stato il bilancio?

«Mi è capitato di rileggere tutti i miei scritti per creare i relativi audiolibri, ed è stato interessan­te vederne l’imperfezio­ne. Quando ero giovane pensavo solo a scrivere “il” libro perfetto, che non esiste. Il punto di questa vita non è avere un libro sulla mensola, sono altre le cose che contano: una sempre maggiore consapevol­ezza per esempio».

Alla fine, Volpe 8 chiede: cosa c’è che non va in voi, gente? Rifaccio a lei la domanda.

«In Resurrezio­ne, Tolstoj scrive: “Non compiere delle azioni che non nascano dall’amore”, o una cosa simile. Credo che sia proprio questo a non andare nella gente: purtroppo però non ho una soluzione, visto che tutto sembra basato sull’utilità e l’efficienza e non sulla connession­e. Il poeta-contadino Wendell Berry ha detto che il grande problema del mondo è che noi uomini non siamo più teneri con la terra. Le grandi corporatio­n hanno il potere e Berry descrive bene la violenza nei confronti di chi coltiva vicino a noi, per favorire l’importazio­ne di cibo da lontano. È quello che accade a Volpe 8: in fondo, nel centro commercial­e costruito sul suo territorio non c’è niente di male. Ma quando guardi il mondo dal punto di vista dei più deboli, anche una cosa come questa può sembrarti un incubo». ➺ Tempo di lettura: 7 minuti

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foto RAMIN TALAIE IL PIÙ AMATO George Saunders, 60 anni, americano. Nel 2017, con il romanzo Lincoln nel Bardo, ha vinto il Man Booker Prize. Insegna alla Syracuse University, nello Stato di New York.
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Volpe 8, di George Saunders (Feltrinell­i editore; pagg. 56; € 10; traduzione di Cristiana Mennella).
IN LIBRERIA Volpe 8, di George Saunders (Feltrinell­i editore; pagg. 56; € 10; traduzione di Cristiana Mennella).

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