DANIELE SILVESTRI
L’esordio senza data, la scelta di non prendersi sul serio, il primo concerto, la politica e gli amici. Alla vigilia del tour che festeggia 25 anni di carriera, Daniele Silvestri ricorda gli esordi, ma guarda anche al futuro. In cui, senza paura, dirà bas
Viaggio indietro nel tempo
In un camerino dell’Officina per le arti Pier Paolo Pasolini a Roma, dove tra poco girerà un videoclip, Daniele Silvestri si sta sforzando di ricordare la data di uscita del suo primo album. Di certo c’è solo l’anno, il 1994, ma spiega che sono mesi che cerca di rintracciare il giorno preciso del suo esordio, per farlo ha pure interpellato – con risultati nulli – anche la casa discografica, e ancora non è riuscito a capirci niente. L’incertezza è grande: «Potrebbe essere la primavera o l’autunno, ma l’altro giorno è spuntata pure un’altra data: 11 luglio. Boh, diamo per buona questa». Diamola per buona e cominciamo a parlare dell’anniversario che è importante, sono 25 anni di carriera, quasi metà esatta della sua vita, un quarto di secolo passato a cantare, sempre in bilico tra cazzeggio e impegno politico e sociale, tra La paranza e L’uomo col megafono, su palchi importanti, da Sanremo ai concertoni del Primo maggio, passando per Cuba, a sostenere cause per Emergency e tante altre associazioni, a ritirare premi e riconoscimenti, sempre circondato dagli amici storici, come Max Gazzè e Niccolò Fabi, con cui ha condiviso anche un tour. Ne ha in programma uno nuovo, che partirà il 25 ottobre da Roma, il primo della sua carriera nei palasport. Per festeggiare l’anniversario, Silvestri stavolta ha fatto le cose in grande: dieci musicisti sul palco incluso lui e una scenografia di notevole impatto, che non prevede un palco ma una specie di collinetta di terra al centro, da cui si diramano delle pedane, e sullo sfondo uno schermo lunghissimo e stretto davanti al quale si muovono le due batterie.
La scelta di non avere un palco è simbolica?
«Il palazzetto non è il club, bisognava inventarsi qualcosa di specifico per il luogo. E poi sì, l’assenza del palco è un modo per svelare tutto ed essere esposti da ogni lato».
Esporsi fa parte della sua filosofia?
«Da sempre. Ricordo il mio primo concerto da solista, era alle Scimmie di Milano, un locale storico sui Navigli. Quel pomeriggio, durante le prove, mentre montava l’ansia e mi chiedevo come avrei fatto, è scattato qualcosa. Ho pensato: io non sono in grado, non sono un animale da palcoscenico, non ci credo nemmeno a me che sto sul palco a cantare, quindi preferisco sputtanarmi. Invece di mettermi sul piedistallo e fingere di essere figo o misterioso, voglio instaurare un rapporto diretto con il pubblico, e se ho delle difficoltà le mostro, se ho delle incertezze le uso. E questa impostazione, anche se negli anni ho acquisito sicurezza, è sempre rimasta».
Com’è andato poi quel concerto alle Scimmie?
«Bene, alle dieci-dodici persone che c’erano è piaciuto».
Prima di allora si esibiva al Locale di Roma, un posto ormai leggendario.
«Era nato all’inizio degli anni ’90 grazie a una decina di persone che volevano avere un luogo per esprimersi. Musicisti, attori, registi, cantanti. Tre stanze lunghe e strette in cui ogni sera succedeva qualcosa di nuovo, si improvvisava, nascevano idee di progetti che poi si realizzavano».
Lì ha conosciuto gli amici che ha ancora?
«Sì, quasi tutti. Tra gli altri, Max Gazzè, Niccolò Fabi, Valerio Mastandrea, Massimiliano Bruni. Tutti abbiamo avuto carriere di primo livello».
È vero che, prima ancora del Locale, suonava in una cover band dei Duran Duran?
«Già. Ero al liceo, ma mi avevano coinvolto nella band solo perché possedevo una tastiera avanguardistica che in tutta Roma avevamo solo in due. Era la Yamaha DX7. Ma questa è un’altra storia...».
Racconti.
«Ero un grande appassionato di strumenti musicali, pur non avendone. Andavo a lezione di pianoforte da un signore che mi ha parlato per la prima volta di questa tastiera rivoluzionaria che stava per uscire in America. Io la volevo con tutto me stesso, ma costava parecchio, più di due milioni di lire. Così, ho messo in atto un piano: ho fatto finta con mio padre di desiderare il motorino, sapendo che lui avrebbe fatto qualsiasi cosa per evitarlo. Così, a 16 anni, l’ho messo all’angolo: be’, se proprio non vuoi prendermi il motorino, allora c’è questa tastiera... Ha funzionato. Era una vita fa».
Nella vita di oggi festeggia 25 anni di carriera: che effetto fa?
«In realtà non volevo festeggiarli, non mi interessa l’autocelebrazione. Però, ora che siamo in ballo, abbiamo pensato di dedicare mezz’ora di spettacolo al percorso dal ’94 a oggi: alle prove si è aperto un fiume di ricordi, è stato molto emozionante».
Il suo è stato un successo improvviso ed esplosivo: il primo disco, Sanremo con L’uomo col megafono, il tormentone Le cose in comune. È stato destabilizzante?
«Non tanto. Vede, io ho cominciato a fare questo lavoro pensando a me stesso come autore, nel ruolo di frontman non mi ci sono mai visto. Quando ero giovane, avevo coetanei che smaniavano per diventare star, io no, non ho mai avuto quell’ambizione».
Però una star della musica italiana lo è diventata.
«E mentirei se dicessi che non mi piace stare al centro dell’attenzione: anzi, è un’energia che crea dipendenza, ma non mi sono mai preso troppo sul serio, e questo mi ha aiutato molto nella vita. Poi, certo, ci sono momenti in cui devi giocare a fare il personaggio, non puoi sempre abbattere le pareti se le pareti prima non le hai costruite».
La canzone della svolta qual è stata?
«L’uomo col megafono. A Sanremo avrei potuto portare Le cose in comune, decisamente più sanremese, ma la scelta ha
pagato, mi ha connotato come cantautore originale».
Sono due canzoni che rappresentano le sue due anime: militanza e leggerezza. In quale si riconosce di più?
«L’ironia è il tratto predominante. Tendo a essere positivo, anche da bambino sorridevo sempre. È un atteggiamento che ho preso da mio padre ma anche dallo spirito romano più autentico, l’ironia che spesso sfocia in cinismo, ma di un cinismo a fin di bene, per sdrammatizzare».
Segue ancora la politica?
«Sì, ma con grande difficoltà, non siamo più abituati a pensare alla politica come a un progetto, a una visione del mondo, è solo un susseguirsi di slogan e di emergenze».
Per chi ha votato l’ultima volta?
«Potere al popolo. Un voto completamente inutile».
È pessimista?
«No, anzi. Il mio ultimo album, La terra sotto i piedi, si apre con una canzone molto ottimista: Qualcosa cambia. E il movimento ambientalista di Greta Thunberg è una buona cosa: non importa se tanti ragazzini non sanno bene perché manifestano, il solo fatto di andarci e di avere uno sguardo sul futuro del pianeta è già un cambiamento».
Lei ha un bambino di 5 anni, Oliver, e due adolescenti: Pablo, di 17, e Santiago, 16. È preoccupato per loro?
«Mi preoccupa soprattutto la percezione che il mondo vero sia quello dentro gli schermi dei telefoni. E noi come adulti siamo poco autorevoli».
A proposito di ragazzini: la trap è il genere più in voga oggi. Lei è tra i pochi cantautori a essersi scagliato contro.
«Sì, anche se bisogna aggiungere che oltre ai trapper da classifica, ce ne sono tanti davvero bravi. Comunque il mio non è un giudizio di merito, è che li trovo monotoni, ripetitivi. Parlano solo di tre cose: soldi, donne e droghe».
Suo figlio Santiago è un trapper.
«La sua prima canzone parlava di fumo infatti. Per fortuna sa scrivere ed è un po’ più originale della media. Migliora costantemente, ma a lui non lo dico perché ha la tendenza a volare alto e voglio fargli capire che non basta finire bene una cosa per essere arrivati».
Le chiede consigli?
«No, solo giudizi. Anche io facevo così con mio padre, non volevo farmi dire come fare le cose, ma solo sapere se gli piacevano».
Per la nuova generazione di cantautori itpop, Daniele Silvestri è un maestro. Ne è consapevole?
«Sì, lo so, ma sento la responsabilità fino a un certo punto. Primo perché non voglio prendermi troppo sul serio, e poi perché vorrei avere il coraggio di smettere quando sentirò che il flusso creativo è finito».
Ci sono state avvisaglie?
«Sì, prima di Acrobati (il penultimo album, ndr), c’è stato un periodo in cui mi sono convinto che forse quel che avevo da dire lo avevo detto. Poi invece è nato il disco e anche l’ultimo è venuto senza difficoltà. Ma dopo tutti questi anni e 300 canzoni scritte, tra quelle pubblicate e quelle no, forse il momento di dire basta non è neanche così lontano».
L’idea la rattrista?
«È sempre bruciante la sensazione di non potere più fare una cosa che ti è sempre riuscita. Ma se guardo lontano, l’idea non mi spaventa. Scriverò sempre, anche quando scrivo un messaggio su WhatsApp compongo un piccolo racconto, lo farò in altre forme».
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