SONO UN UOMO ALL’ ANTICA
Nello stile (no ai jeans strappati). Nei gusti (sì ai film d’antan). Nei valori (matrimonio, e solo in chiesa). Giuseppe Maggio è un tradizionalista convinto. Vedendolo in Baby nei panni di Fiore, discotecaro un po’ tamarro e molto dark, lo avreste mai detto?
«Non c’è cosa più bella per un attore che guardarsi allo specchio e non riconoscersi»
Pantaloni blu con la piega, mocassini color mogano, camicia inamidata e maglioncino beige sulle spalle: Giuseppe Maggio non ha ancora compiuto i 27, ma si sente un uomo di altri tempi: «Ai jeans strappati preferisco la classicità di giacca e cravatta, alle saghe sui supereroi i film della Nouvelle Vague», dice mentre tira una contraddittoria boccata di sigaretta elettronica. «Uso questa perché sto cercando di smettere. Da due anni», ride sfoggiando un sorriso più che perfetto e di un bianco più che irreale: «Papà fa il dentista». Il protagonista di Amore 14 di Federico Moccia, nato e cresciuto a Roma, zigomi marcati, sopracciglia folte, incarnato olivastro, ha una bellezza meridionale. «Leccese», precisa l’attore che vestirà i panni di Fiore, cattivo ragazzo della serie Netflix Baby, di cui il 18 ottobre andrà in onda la seconda stagione.
La prima si è conclusa con un omicidio. Di cui il colpevole è proprio Fiore.
«Ora prenderà il potere: diventerà il personaggio oscuro».
Delitto senza castigo?
«I sensi di colpa li ha. Fiore non è spietato. È uno che ha sempre pensato di essere un eterno secondo».
A lei è mai capitato di sentirsi così?
«Tutta la mia vita. Solo che io ho usato questo senso di inadeguatezza per migliorarmi: ho studiato, viaggiato, esplorato. È l’unico modo per garantirsi una carriera cinematografica a lungo termine».
Sta dicendo che punta soprattutto al grande schermo.
«Non faccio distinzioni tra cinema e serie di alto livello».
Quali sarebbero le «serie di alto livello»?
«Quelle di Netflix, Sky e alcune della Rai».
Non resta fuori molto.
«In altri ambienti in cui ho lavorato, qualitativamente parlando, c’era un abisso. Ricordo che, una volta, un regista ha detto a un’attrice: “Voglio più soffiato”».
Soffiato?
«In gergo “soffiare” significa pronunciare una battuta ansimando: non è considerata buona recitazione. Però quell’esperienza mi è servita, ho capito cosa non voglio».
Per evitare ciò che non vuole rifiuta parecchi ruoli?
«Per ora, sono più i rifiuti che ricevo».
Mai stato scartato perché considerato «troppo bello»?
«È capitato che a causa della mia faccia non mi prendessero sul serio. Come dire: non puoi essere anche bravo».
Sarebbe disposto a imbruttirsi per un film?
«Disposto? Felice! Non c’è cosa più bella per un attore che guardarsi allo specchio e non riconoscersi».
Magari, però, la sua fidanzata non sarebbe entusiasta di vederla ingrassare 20 chili per lavoro.
«Sono ben altri i motivi per cui Susanna sta con me».
Lei non fa parte dello showbiz: come vi siete conosciuti?
«L’ho incontrata per la prima volta a 19 anni. Da allora, mi ha sempre rifiutato».
Fino a che?
«L’anno scorso la vedo in un locale, vado a parlarle e per tutta la sera sto con la testa voltata a sinistra. Lei mi chiede perché, io nicchio. Insiste, così le rivelo che, quella mattina, rasandomi mi ero procurato un bel buco sulla guancia. Si è messa a ridere. Come tanti, pensava fossi arrogante».
Perché?
«La gente confonde la mia timidezza per strafottenza. Da adolescente non riuscivo neanche a parlare con le donne».
Quando ha imparato?
«Mai».
Ride perché non ne ha avuto bisogno? Dopo Amore 14, le ragazze avranno la fila per parlare con lei.
«Le ragazze sì: imbrattavano anche i muri di scuola con “Maggio sei bellissimo”. I maschi un po’ meno. In ogni caso quel film mi ha esposto molto: a 16 anni i coetanei mi fermavano per strada, mi chiedevano autografi, mi rincorrevano. Ho rischiato di perdere l’equilibrio».
Come l’ha mantenuto?
«Andando in terapia. Avevo bisogno di costruire la mia identità al di là dei personaggi che interpretavo».
C’è riuscito?
«Credo. Oggi mi definirei un uomo all’antica».
Cioè?
«Il mio modello è mio nonno che, per allacciarsi le scarpe, andava alla toilette. Credo nell’eleganza e nei valori».
Quali valori?
«La divisione dei ruoli tra maschi e femmine, per esempio. L’uomo deve essere uomo, come lo è stato Clark Gable. La donna non deve mai abdicare alla propria femminilità, coltivando morbidezza, accoglienza e seduzione».
Meglio se con grembiule e dietro ai fornelli?
«Ma no, nessuno deve rinunciare a realizzarsi».
A casa chi fa i mestieri: lei o la sua compagna?
«Non conviviamo, ma quando stiamo assieme dividiamo i compiti. Io sciacquo i piatti, lei li mette in lavastoviglie».
Matrimonio?
«Senz’altro più avanti. E in chiesa: sono credente. Prima, però, devo concentrarmi sul lavoro».
C’è qualche suo collega di cui vorrebbe seguire le orme?
«Ha da poco vinto la Coppa Volpi: Luca Marinelli».
Lui ha dedicato il premio a quanti salvano le vite in mare. Condivide?
«Certo. Dovremmo tutti immedesimarci con chi scappa da guerra e miseria. Chiudo gli occhi, immagino di essere un ragazzo siriano. Devo lasciare terra, casa, famiglia. Saluto mia madre: chi sa mai se la rivedrò. Salgo su un gommone, affronto i capricci del mare, vedo la costa. Come mi sentirei se, a un metro dalla salvezza, venissi respinto da gente che nemmeno sa chi sono? Che mi giudica a priori? Nascere in Occidente è una fortuna. Non possiamo tenerla tutta per noi».
«Per tutta la vita mi sono sentito un eterno secondo. Ho usato questo senso di inadeguatezza per migliorarmi e studiare di più»