ESHKOL NEVO
Livingston
Di Livingston non ricordo nient’altro che la ragazza. Perciò controllo su Google. Livingston, Guatemala. Cittadina situata sull’estuario del Río Dulce, il fiume dolce.
Popolazione: 48.588. In prevalenza discendenti di schiavi e fuggiaschi della guerra di secessione, che sfruttarono la mancanza di collegamento via terra tra Livingston e il resto del Paese per nascondersi.
(È vero – mi torna in mente – in effetti siamo arrivati a Livingston navigando lentamente. Con una barca a motore. Sulle due rive qua e là spuntava una capanna. Yossi continuava a ripetere che quel posto gli ricordava Apocalypse Now).
Clicco sulla fotografia della strada principale di Livingston. Case basse. Ostelli malandati. Bar. Dappertutto altoparlanti che trasmettono Bob Marley.
In uno dei bar abbiamo incontrato le due ragazze inglesi. Quando due ragazzi e due ragazze buttano giù tequila bum bum insieme, si pone sempre la domanda…
E quando Yossi ha cominciato a carezzare i capelli di quella alta, è arrivata la risposta.
Ci siamo incamminati tutti e quattro verso il nostro ostello. Yossi e quella alta sono entrati in camera e si sono chiusi la porta alle spalle. La bassa e io ci siamo seduti fuori, sotto il portico, e abbiamo cominciato a parlare.
Non ricordo di cosa abbiamo parlato. Magari si potessero verificare su Google le conversazioni significative del nostro passato.
Ricordo bene la sensazione, invece: di aver trovato un’anima gemella. Forse sono i silenzi, e non le parole, a provocare questa sensazione; la sensazione di essere capito. Di essere capito profondamente.
A un certo punto ha cominciato a piovere. Abbiamo avvicinato le sedie sotto il portico perché le gocce non ci raggiungessero. Dalla camera provenivano dei gemiti. Un po’ esagerati.
Quando due ragazzi e due ragazze bevono insieme, e una coppia s’imbosca in una stanza per fare sesso, si pone la domanda… qualcosa nello sguardo della ragazza seduta con me sotto il portico conteneva la risposta.
Dall’abisso emerge improvvisamente il suo volto. Chiaro.
Qualche lentiggine. Capelli rossi. Un taglio carré perfetto, insolito per chi viaggia zaino in spalla. Occhi gentili.
E la piastrina. Come ho fatto a dimenticare la piastrina. Al collo aveva una catenina. E appesa, una medaglietta con i dati personali.
Yossi, che studiava medicina, il giorno dopo mi ha spiegato che quelle piastrine le porta chi soffre di epilessia. Così se ha una crisi improvvisa per strada, lo si può identificare.
Sotto il portico non le ho chiesto della piastrina. Una domanda così rozza non era adatta a una conversazione tanto delicata.
La pioggia non smetteva. Era una pioggia tropicale, calda, sferzante. Abbiamo appoggiato due bicchieri vuoti nella parte esposta alle gocce. E ogni volta che si riempivano, bevevamo. Abbiamo deciso che l’acqua piovana ubriaca più dell’alcol. E siamo scoppiati a ridere.
O meglio, io ho riso. Lei ha sorriso, un sorriso triste. Verso mattina l’altra ragazza è uscita dalla camera e si è lamentata: il tuo amico dorme. E ha proseguito: io me ne vado. Vieni anche tu?
No, ha risposto la mia anima gemella. Io resto. Dentro di me, ho gioito.
Abbiamo aspettato insieme l’alba. In silenzio. E dopo che il sole si è levato al di là del fiume dolce, si è alzata.
Mi sono alzato anch’io. Ci siamo abbracciati. Era così magra che sentivo tutte le ossa.
Le ho detto, grazie. Non ha chiesto di cosa.
Non so se sono in grado di spiegare perché quello è stato il momento di svolta del viaggio. Perché il groviglio interiore che mi tormentava dal momento della partenza si è sciolto proprio parlando con lei.
* L’indomani, non abbiamo trovato le due inglesi da nessuna parte. Ci siamo trascinati da un bar all’altro, ma non c’erano. Yossi ha detto che era meglio così.
* All’ingresso di Livingston, torna a ricordarmi Google, i turisti devono mostrare il passaporto e aspettare che venga timbrato.
Come se entrassero in un paese nuovo. Dotato di una sua esistenza autonoma.