STORIE La Lady di ferro di Hollywood
Una notte magica a Palazzo Barberini per celebrare un accordo quadro tra Istituto Luce-Cinecittà e Academy: segno, spiega il Ceo dell’istituzione Usa Dawn Hudson, di una nuova speciale attenzione verso l’Italia e il suo cinema di ieri, di oggi e di domani
STATUETTE ROMANE
Pagina accanto, da sinistra in senso orario, Monica Bellucci; Kasia Smutniak con il regista Ferzan Özpetek; Vittorio Storaro, celebre direttore della fotografia; Stella Savino, Casting director.
In questa pagina, dall’alto a sinistra in senso orario, il regista Giuseppe Tornatore e, di spalle, il produttore cinematografico Domenico Procacci; la produttrice di Taodue Camilla Nesbitt con la figlia Virginia Valsecchi;
Luca Zingaretti e, nella foto al centro, Michele Centemero, Country manager per l’Italia di Mastercard, Valentina Corallini e Matteo Lunelli, Presidente e Amministratore delegato di Cantine Ferrari.
MAESTRI E PROMESSE
Da sinistra, l’attrice Nicoletta Romanoff; la scenografa Francesca Lo Schiavo.
Nel riquadro, da sinistra, David Rubin, Presidente dell’Academy, Monica Bellucci, Dawn Hudson, Ceo dell’Academy, Roberto Cicutto, Presidente e Amministratore delegato di Istituto Luce-Cinecittà.
Pagina accanto, da sinistra, l’esibizione del soprano del trio Aria; Carlo Verdone; da sinistra, Valeria Golino, Giancarlo Giannini e Monica Bellucci; sedute, la regista Lina Wertmüller e la figlia Maria Zulima Job. Alla notte magica di Palazzo Barberini, tra tanti ricordi legati a maestri come Federico Fellini, hanno partecipato tra gli altri anche il regista brasiliano Fernando Meirelles (candidato all’Oscar nel 2004 per City of God) e Mario Turetta (Direttore generale Cinema del Mibact). L’evento è stato curato da Martino Crespi.
A Hollywood Dawn Hudson è conosciuta come la «Iron Lady» che è entrata a gamba tesa nel club maschile più esclusivo dA’ merica, lA’ cademy of Motion Pictures, Arts and Sciences trasformandolo da dietro le quinte in un’istituzione completamente diversa. Più donne, più persone di colore, più tecnologia e un museo da 388 milioni di dollari progettato da Renzo Piano che dovrebbe aprire nel 2020, l’anno del centenario della nascita di Fellini.
63 anni, ex attrice, alta, magra, spigolosa e irresistibile come una professoressa severa sulla quale desideri solo fare colpo. È nata in Arkansas e ha quella qualità «no bullshit» che hanno le donne del Sud degli Stati Uniti, il tipo di persona che alla fine di un discorso si ricorda di ringraziare anche la stagista di turno. A Roma, dove è venuta ad annunciare un accordo quinquennale con l’Istituto Luce-Cinecittà presieduto da Roberto Cicutto che prevede la programmazione di rassegne e mostre dedicate al cinema italiano a Los Angeles, si commuove quando mostra un filmato di Fellini insieme a Giulietta Masina durante una visita a Disneyland nel 1958, l’anno in cui Le Notti di Cabiria vinse uno dei 4 Oscar
della carriera del maestro. Nonostante la sua diplomazia inattaccabile è veramente un piacere vederla mentre si toglie i sassolini dalle scarpe per prendersi qualche rivincita.
Quando è diventata Ceo dell’Academy nel 2012 i membri erano prevalentemente bianchi (94%) e maschi (77%). Oggi la metà dei nuovi membri è costituita da donne e il numero di persone di colore è più che raddoppiato negli ultimi tre anni. A detta di tutti lei è diventata il volto della rivoluzione dell’Academy. Sapeva quello a cui stava andando incontro quando ha cominciato?
«Sono stata assunta per cambiare e modernizzare la’ cademy e il ruolo di Chief Executive Office è stato creato apposta per me. Prima avevo lavorato venti anni per il cinema indipendente, dove l’innovazione, la diversità e l’inclusione erano il nostro pane quotidiano. Quando sono arrivata alla’ cademy pensavo di poter applicare gli stessi criteri, ma ho scoperto presto che il cambiamento è una cosa strana, con cui è difficile convivere. Non avrei mai immaginato di incontrare così tanta resistenza al nuovo, non sempre ma spesso. Dopotutto sono entrata in un’istituzione che aveva le stesse tradizioni da 85 anni e fino a quel momento nessuno aveva voluto cambiarle».
Sembra la descrizione di una setta massonica.
«Esatto, però le fondamenta della’ cademy erano importanti e non volevo metterle in gioco. Non volevamo scuotere o compromettere le radici. LA’ cademy rappresenta l’eccellenza artistica e noi volevamo salvaguardare questo aspetto fondamentale, ma volevamo anche andare avanti. Diciamo che il bisogno di progresso ha creato un po’ di maretta. Il cambiamento è una cosa che ci spaventa nelle nostre vite personali, immagini in un’istituzione salda come quella della’ cademy».
Se pensa che l’America è restia ai cambiamenti, si immagini l’Europa. Natalia Aspesi, una delle più grandi giornaliste italiane, dopo il caso Weinstein affermò che le molestie avevano sempre fatto parte del mondo del cinema e che la maggior parte delle volte le attrici erano consapevoli di quello a cui andavano incontro, Catherine Deneuve scrisse la famosa lettera a Le Monde parlando dell’importanza di essere importunate e, quando si decise di cambiare il criterio per la membership dell’Academy scegliendo di ampliare il numero di donne e minoranze etniche tra i votanti, Charlotte Rampling aprì una grande polemica.
«Una delle cose che non mi aspettavo era che la’ cademy sarebbe stata al centro di tanti cambiamenti culturali che sono andati di pari passo con un movimento politico che si è diffuso in tutto il mondo. Quando sono arrivata io era solo l’inizio di queste prime scosse sismiche che poi sono arrivate in superficie con Weinstein e con la polemica di #OscarsSoWhite. Quello che solo due anni fa era accettato o quello di cui non si parlava è esploso tutto insieme e noi ci siamo ritrovati al centro di un tema che ha toccato tutti. Quando sei nel cuore delle cose è difficile rendersi conto di quanto fai parte di un cambiamento esterno. Weinstein è stato nella mente della’ cademy quando è nata questa conversazione, ma la verità era che questa conversazione stava svolgendosi contemporaneamente anche in tutto il mondo. Per quello che riguarda l’Europa penso che ci sia molta più storia qui che da noi. Noi siamo un Paese nuovo in confronto ai Paesi europei e forse per questo siamo più progressisti e flessibili per alcune cose. Fa parte della nostra natura, ma l’Europa è molto avanti su tantissime altre cose come la salute pubblica e il sostegno alle famiglie».
A Charlotte Rampling lei rispose che i cambiamenti all’interno dell’Academy non erano una prerogativa politicamente corretta, ma un modo per essere aperti e curiosi nei confronti delle generazioni future. Ora che la scossa c’è stata e che le cose sono venute alla luce, è possibile fare lavori creativi che non implichino anche un’agenda politica?
«Credo che tutta l’arte sia politica. Le storie di formazione, le storie di viaggio, di trasformazione, le storie che raccontano quello che siamo diventati, anche le storie più personali e umane hanno un seme politico. Il fatto di essere diventati meno esclusivi con la’ cademy ora è anche un discorso politico, ma al cuore di questo c’è una curiosità genuina di aprire il campo a voci diverse con storie diverse che continuano a generare reazioni nella nostra immaginazione. Non si possono ottenere le più alte forme di arte se non impariamo a includere e diversificare. Essere artisti con punti di vista diversi è l’essenza di quello che significa fare cinema. Dobbiamo attingere a persone con talenti e verità più disparate
possibili. Se limiti le persone con cui puoi scambiare idee e giocare stai limitando anche la tua arte».
Sempre per continuare sul discorso dei cambiamenti, l’Academy of Motion Picture Arts and Sciences ha rifiutato il piano controverso volto a introdurre una nuova categoria agli Oscar «Exceptional result in a popular movie».
«Sì, abbiamo sondato il terreno con quest’idea che ci sembrava interessante, ma abbiamo capito in fretta che la categoria era molto difficile da definire. Abbiamo preferito tagliare la testa al toro per ora. Però abbiamo pensato di cambiare la “Foreign-language” nomination a International Film. La parola “foreign” ci sembrava troppo esclusiva, troppo distaccata».
In questi otto anni quali sono state le sue battaglie personali? I risultati più soddisfacenti e le delusioni maggiori?
«La cosa di cui sono più orgogliosa è la nostra iniziativa per essere più inclusivi ed essere rilevanti nello scenario contemporaneo. Dovevamo andare oltre Hollywood, oltre Los Angeles, oltre gli Stati Uniti, dovevamo includere il mondo. Non puoi essere lA’ -Team se hai solo un tipo di giocatori. Sono anche orgogliosa del nostro museo. Se ne parla dal 1927 e finalmente nel 2020 aprirà questo incredibile palazzo di Renzo Piano. Il museo è un modo per mantenere uno sguardo sul passato pur andando verso il futuro. Per quello che riguarda le delusioni, invece, una persona come me vorrebbe sempre che le cose andassero lisce come l’olio, che ogni idea venisse accolta con il sorriso e l’apertura mentale, che la gente ti dicesse sempre che hai avuto un’idea brillante, ma purtroppo non va mai così. Si prova a fare delle cose, ma si ricevono subito delle critiche, dalle persone nel business o dai membri dellA’ cademy».
Lei è stata presa di mira sia dal vecchio establishment che dalla stampa, ma ha sempre trovato il modo per uscirne. Chi sono le persone che l’hanno sostenuta di più durante i cambiamenti? Quelle da cui è potuta andare quando aveva bisogno di sostegno.
«Kathy Kennedy, Annette Bening, Laura Dern, Kathryn Bigelow, queste donne sono state fondamentali per me e sono tutte diventate amiche. Mi hanno aiutata ad andare avanti come fanno le amiche e i membri della tua famiglia. Mi hanno dato la forza e la fiducia per affrontare tante sfide. Senza di loro sarebbe stato tutto molto solitario. Ma ho avuto anche uno staff fedele che mi ha fatto sentire che apprezzava quello che stavo facendo, mi sono sentita vista da loro. Ci sono stati attori che mi hanno chiamato di notte nei momenti più difficili per dirmi che dovevo andare avanti. Quelle chiamate e quelle conversazioni sono tutto».
La chiamano «Steel Magnolia», si sente come una Iron Lady?
«Mi stupisco anche io di quanto siano forti le mie convinzioni. Ho dovuto accedere ai lati più duri del mio carattere per sostenere le cose in cui credo: avere unA’ cademy più inclusiva, avere un museo che ci rappresenti, avere uno sguardo più internazionale. Credo che queste cose renderanno lA’ cademy più forte per il futuro. È una sorta di fede. Mista a tantissimo sostegno. Ma siccome ci credo tanto trovo la mia forza lì».
Ho la sensazione che il mercato si stia espandendo enormemente. Nuove lingue, nuove culture, per la prima volta il doppiaggio è diventato un’industria anche negli Stati Uniti. Come si rapporta a questa grande piazza internazionale che si sta aprendo?
«Una delle cose che sono successe da quando sono entrata io è un’iniziativa tecnologica che riunisce i membri dellA’ cademy attraverso gli Stati Uniti e nel mondo».
Una chat di gruppo?
«Esatto, tra 9.000 persone però… Era importante avere questo tipo di comunicazione e tecnologia al cuore dellA’ cademy. Siamo sempre un po’ terrorizzati dalle nuove tecnologie, ma in realtà ci permettono di fare da tessuto connettivo tra tutti i membri. Gli artisti si parlano, i membri si parlano e le idee arrivano da tutte le parti del mondo. Oggi si può fare la post produzione di un film in un Paese, gli effetti digitali in un altro e la colonna sonora in un altro ancora. E rimane sempre un film, una visione. Sembra assurdo ma nella dispersione c’è più unità e la tecnologia non ha diminuito il senso di comunità, l’ha solo amplificato. Sono molto fiera della nostra responsabile del dipartimento di tecnologia perché ha fatto in modo che rimanessimo rilevanti nel mondo».
Come è stato il passaggio dal cinema indipendente all’Academy?
«Molto naturale perché le persone con cui lavoravo sono passate dall’essere artisti indipendenti a veterani del cinema. Li ho visti crescere: Barry Jenkins, Chris Nolan, Laura Dern. Di fatto la missione era la stessa ma era totalmente diverso il tipo di scrutinio. Sei sempre un target e hai un’audience più grande. Una delle prime conversazioni informali che ebbi con un amico allA’ cademy fu subito riportata da un giornalista del Los Angeles Times poche ore dopo. Questo mi fece capire che la mia vita sarebbe cambiata. Ogni cosa che dico o faccio è di pubblico dominio ora».
Cosa farà dopo il suo mandato?
«Dobbiamo assicurarci che i giovani, le donne e le persone di colore entrino a far parte dellA’ cademy quando gli altri si ritireranno. Dobbiamo identificare e nutrire le nuove generazioni. Questo è il mio ultimo gol, poi vedremo».
Lei è stata la prima Ceo dell’Academy a far vivere l’Oscar sotto la potente ala dei social media. Legge tutti i tweet, pensa a tutte le lamentele? Prende in considerazione tutti gli elogi? Che termometro usa e che confini mette?
«Tutto quello che facciamo viene discusso e dibattuto, criticato oppure amato. Ma questo è il privilegio di lavorare per questa statuetta. Oggi più che mai è diventata una cosa con cui le persone si identificano, una cosa a cui si sentono appassionate, siamo diventati un hashtag! È una sfida, ma sono così felice che abbia un significato così grande nella vita delle persone».
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