La quiete dopo la tempesta (Vaia)
Un anno fa la tempesta «Vaia» distruggeva 8 milioni di metri cubi di foreste. Quel vento anomalo da sud è il segno più evidente del cambiamento climatico in un Paese − il nostro − che è sempre più selvaggio
«Papà, papà, vieni un po’ qua, non capisco... È comparso il lago».
Quella notte Andrea Prener si è accorto che qualcosa di enorme era successo perché, guardando dal prato davanti al suo maso, riusciva a vedere le luci del Lago delle Piazze. Dalla fattoria non si era mai visto il lago artificiale giù a valle, perché in mezzo c’era sempre stato un fitto bosco di abeti e larici. Ma solo la mattina dopo Andrea, che è un giovane produttore di formaggi dell’Altopiano di Piné, in Trentino, è riuscito a capire che cosa era successo: la tempesta di vento, che il giorno prima aveva spazzato le montagne dalla Lombardia al Friuli, aveva abbattuto tutto. Otto milioni di metri cubi di foreste, per la precisione. In poche ore sono venuti giù gli alberi che si tagliano in sette anni, tronchi che potrebbero riempire 500 mila tir, sradicati dal vento o caduti gli uni sugli altri come in un domino vegetale. Era il 29 ottobre di un anno fa, la tempesta l’hanno chiamata Vaia, che è un nome portoghese e significa «grido improvviso».
Un anno dopo, quel grido riecheggia ancora nelle valli. Vaia è innanzitutto un evento umano, un trauma sociale ed economico: gli alberi caduti erano economia e ricchezza, qui ci sono i due terzi del legname da opera italiano, compresi gli «abeti di risonanza» con cui i liutai costruiscono gli strumenti. «Nessun bosco è andato distrutto», chiarisce Mario Pividori, docente di Ecologia forestale a Padova. «Un bosco è distrutto quando viene sostituito da un’autostrada, un campo, un ospedale. Se gli alberi vanno giù, in un modo o nell’altro questo fa parte della storia naturale di quel bosco, che rimane tale, anche se oggi sembra che non abbia alberi». Un cartello all’ingresso della facoltà
recita: «I boschi tornano» e torneranno anche quelli di Vaia. Ma quando, come e quali sono le domande che dobbiamo farci oggi. Intanto, solo un quarto dei tronchi è stato raccolto in questi mesi: lavorare sugli «schianti» è difficile e pericoloso. Nel frattempo il prezzo del legname è crollato. L’Italia è un importatore di tronchi, ma a novembre sono arrivati compratori dall’Austria, dalla Cina, hanno piazzato verricelli e container ai bordi dei boschi e acquistato a prezzi irrisori. «Per la nostra cultura ogni pianta è sacra e va valorizzata», mi dice Ivano Caveda, custode forestale della Val Cadino, una delle più colpite. «Ma dopo Vaia contava solo riempire i tir, non che cosa ci finisse dentro». Nonostante il lavoro, la speculazione e la vendita selvaggia, qui sembra ancora il giorno dopo, con interi versanti a terra.È cambiata l’atmosfera: appena caduti gli alberi erano verdi, avevano aghi e foglie, sembravano vivi. Oggi sono secchi e grigi, sembra il fronte di una guerra, probabilmente lo è.
La tempesta Vaia è la più importante storia di cambiamento climatico che abbiamo avuto in Italia. Me lo spiega Giovanni Giovannini, capo del Servizio Foreste della provincia di Trento, uno che quella notte non se la dimenticherà. «Nei giorni precedenti aveva piovuto tantissimo e noi eravamo preparati, il sistema funzionò alla perfezione. Quello che nessuno si aspettava era il vento». Le valli erano sempre state schermate dalle Alpi, solo che con Vaia il vento non soffiava da nord, ma da sud, con una forza mai vista. Lo scirocco è risalito dal Mediterraneo con la furia di un uragano, potenziato e nutrito dalla temperatura del mare di due gradi più elevata che negli anni precedenti. Le conifere sono alberi alti con le radici poco profonde,
possono resistere a venti di 110 km/h, quella sera superavano i 200. «Avevo appena cenato», racconta Giovannini. «Ho cominciato a sentire i rumori, sono uscito e la cosa che mi ha stupito di più era il caldo anomalo. Gli alberi si piegavano, tutto tremava e le raffiche hanno iniziato a colpire la casa». Il vento gli ha scoperchiato il tetto e lo ha portato a una settantina di metri. «Ho passato la notte cercando di mettere un telo sulle travi. A differenza di altri, Vaia l’ho vissuta all’aperto. Ho sentito per tre, quattro ore gli alberi crollare, sembrava che venissero giù le montagne. Il rumore di milioni di metri cubi di alberi che rotolano giù insieme alla terra, ai massi, all’acqua. La mattina dopo ho detto a mia moglie: ora voglio sentire uno che mi dice che il cambiamento climatico non esiste».
Mentre noi decidiamo se Greta Thunberg ci è
simpatica o meno, chi lavora nei boschi spesso non aggiunge nemmeno «climatico», lo chiama semplicemente «il Cambiamento», e la maiuscola si sente forte, come se ne avverte l’impatto esistenziale, pratico. Nicola Casolla ha una segheria in Val di Ledro, sa che gli alberi tengono memoria di tutto e si adattano a ogni cosa: nei tronchi trova ancora schegge della Grande Guerra, gli operai hanno imparato a riconoscerle, prima che spacchino le lame, da un’ombra blu sulla corteccia. «Vedremo come andrà col Cambiamento», mi dice. «Nei prossimi cinque anni la linea dell’abete rosso si alzerà di 200 metri, sarà troppo caldo per vederli crescere sotto i 700 metri di altitudine». La tempesta Vaia è stata un grande crollo, ma tracce degli scricchiolii si vedono ovunque. «Le foreste sono più sensibili di noi, stanno reagendo», mi spiega Giovannini, «i boschi mediterranei diventeranno collinari, quelli collinari diventeranno montani, i boschi alpini resisteranno alle quote più elevate. Alcune specie stanno sparendo, il frassino è destinato a morire in Italia, l’olmo è quasi scomparso». Quando scrivo a Pividori per chiedere conferma scientifica, lui conclude la sua risposta con una frase che sembra una battuta, ma non lo è affatto: «Se arrivasse il banano a Cortina non sarebbe un problema per la nostra società, perché nel frattempo sarebbe già scomparsa». In attesa di questo scenario, c’è una paura più immediata, è lunga cinque millimetri e si chiama bostrico, un parassita che attacca gli alberi stressati e li secca, agendo come un contagio, spostandosi da una pianta all’altra. Di stress, gli alberi ne hanno avuti tanti: la tempesta, i crolli, le temperature elevate. In Friuli è già un problema. Più a nord, in Repubblica Ceca, ha attaccato metà delle foreste, è la peggior emergenza dai tempi di Maria Teresa d’Asburgo, ha dichiarato il ministro dell’ambiente Richard Brabec.
Il paradosso è che dal Medioevo non c’erano così tanti boschi in Italia. La superficie forestale è quasi raddoppiata negli ultimi 80 anni. Nel 1936 c’erano 6,3 milioni di ettari di boschi, ora sono 10,9 milioni, secondo il Rapporto Foreste del 2018. È l’effetto della trasformazione del nostro Paese da agricolo a urbano: i campi e i pascoli vengono abbandonati e gli alberi se li riprendono. Aumentano pure gli animali, come racconta il narratore forestale Daniele Zovi nel suo Italia selvatica (Utet): sono tornati lupi e orsi, sono arrivati gli sciacalli da est, ci sono perfino le linci. Questa esplosione di natura è un patrimonio che non abbiamo costruito o meritato e che è sempre più fragile.
«La tempesta ha riportato la discussione su questi temi», conclude Giovannini. «A chi non li conosce bene, i boschi paiono fortissimi, eterni, sembra che siano lì da sempre, ma il vento ci ha mostrato quanto sono effimeri». ➺ Tempo di lettura: 7 minuti