Mi batto con Greenpeace
È andato al Polo Sud con gli attivisti di Greenpeace per vedere lo scioglimento dei ghiacci e realizzare un documentario di denuncia. Quella dell’emergenza climatica è una battaglia in cui l’attore crede molto: anche nel prossimo film, «Dune», interpreterà un ambientalista
«Lei crede al fatto che ci estingueremo presto tutti?». Javier Bardem mi guarda e il suo volto diventa serissimo. «Non ci credevo neanche io e mi dicevo: com’è possibile? Eppure, come sostengono gli scienziati, è ciò che rischiamo se non facciamo qualcosa per l’emergenza climatica. E io che ho due figli, Leo di otto anni e Luna di sei, ho paura».
A 50 anni appena compiuti, l’attore lanciato da Bigas Luna («gli devo la mia carriera e l’incontro con mia moglie Penélope Cruz», dice) e reso celebre da film come Mare dentro e Non è un paese per vecchi, veste i panni dell’attivista per il documentario Sanctuary, prodotto e interpretato col fratello maggiore Carlos. «Volevo accendere l’attenzione sulla battaglia di Greenpeace per preservare il mare dellA’ ntartide dalla pesca e dal turismo».
Nel film che, spiega Bardem, «uscirà presto sulle piattaforme di streaming», l’attore si imbarca con gli attivisti per raggiungere il Polo Sud dove assiste allo scioglimento dei ghiacci, ammira i pinguini, visita su un batiscafo le profondità dell’oceano; poi lo vediamo andare alle riunioni dell’Onu per convincere le nazioni a intervenire. «C’è bisogno di una rivoluzione e di investire miliardi di dollari per cambiare il sistema economico e politico». La sua battaglia, dopo avere girato il film, è proseguita per lanciarlo nei festival di Toronto, San Sebastián e Zurigo, dove l’abbiamo incontrato a più riprese per questa intervista.
Mentre parliamo i ragazzi manifestano in tutto il mondo. Che ne pensa di Greta Thunberg?
«È un miracolo arrivato dal cielo in questo momento così complicato, cinico, egoista e pieno di menzogne. La ammiro, ma mi fa pena che una ragazzina debba assumersi quelle responsabilità. Mi dà il voltastomaco vedere Trump, Bolsonaro o Salvini che la deridono. Dobbiamo appoggiare questi giovani: il futuro appartiene a loro».
Come ha cambiato il suo stile di vita dopo il viaggio in Antartide?
«Invece di prendere un aereo che arriverà a destinazione in due ore, prendo un treno che inquina molto meno. È importante il contributo di tutti, ma è sbagliato attaccare i consumatori».
In che senso?
«Devono essere la politica e l’economia a favorire comportamenti virtuosi: se si sostituisse la plastica con materiali biodegradabili ci adegueremmo tutti a nuovi consumi».
Mi sembra piuttosto arrabbiato...
«Sono nato arrabbiato, non vede la mia faccia? Quando sono nato ho gridato: “Mamma perché mi hai messo al mondo?”(ride). A parte gli scherzi, non c’è da rallegrarsi se si va in giro ancora in maniche corte a ottobre. Quando ero ragazzino a Madrid ogni tanto nevicava, ora non succede più».
Che rapporto ha con la natura?
«Sono nato alle Canarie, ma già a tre anni i miei si erano trasferiti a Madrid. Per fortuna vicino casa c’era un parco dove passavo i pomeriggi ad arrampicarmi sugli alberi. A dire il vero però sono più un uomo di città. Per questo andare in Antartide mi ha lasciato a bocca aperta».
L’abbiamo vista familiarizzare con i pinguini...
«Mi piacciono fin da bambino. Ha visto come camminano? Sono goffi come me! Ma quando si tuffano in acqua si trasformano in creature eleganti».
Cosa l’ha impressionata di più in questo viaggio?
«Il silenzio di quei luoghi. È stata la forma di meditazione più profonda mai provata, quasi un’esperienza religiosa».
Lei è religioso?
«No. Rispetto la spiritualità altrui, ma più che nel sovrannaturale credo nell’uomo. Come ho detto altre volte: non credo in Dio, credo in Al Pacino. E non vedo l’ora di vedere The Irishman (il thriller con Al Pacino e Robert De Niro nelle sale dal 4 al 6 novembre e su Netflix dal 27 novembre, ndr)».
Presto sarà nel remake di Dune in cui interpreta un ambientalista.
«Sì, sono Stilgar, il capo della tribù dei Freemen, che per sopravvivere nel deserto di Arrakis usa una tuta in grado di riciclare tutti i fluidi corporei, urina compresa. Giravamo in Giordania, in un caldo asfissiante, e ho pensato: magari fra cento anni il mondo sarà così!».
E poi ci sarà La sirenetta...
«Interpreterò Tritone, il re dei mari. Diventerò l’eroe dei miei figli, ma vorrei dir loro che i veri eroi sono altri: per esempio il comandante della nave di Greenpeace, che lascia la famiglia a casa per lottare per tutti noi».
Su quella nave è salito con suo fratello Carlos. Com’è stato il vostro rapporto?
«Come con ogni fratello maggiore: ci siamo odiati, picchiati, non ci siamo parlati per tanto tempo, ma abbiamo fatto pace. I miei si sono separati quando eravamo piccoli, e ci ha cresciuto mia madre, ma Carlos è diventato la figura maschile di riferimento per me e mia sorella Monica. Il problema è che non avendo lui a sua volta un modello, da ragazzi ne abbiamo combinate di tutti i colori».
Ora fate gli attivisti, ma c’è chi dice che gli attori non dovrebbero fare politica.
«Sono un cittadino come gli altri, pago le tasse e ho diritto a esprimermi. Oggi, per colpa dei social network, la gente si autocensura, per paura delle reazioni negative. Io me ne frego».
I social però aiutano campagne come quella di Greenpeace.
«È vero, ti fanno avere molto seguito, ma io non credo all’attivismo del Like. Se vuoi cambiare il mondo devi scendere in strada a protestare».
Da chi ha ereditato questo spirito combattivo?
«Da mia madre, che mi ha insegnato a lottare per ciò in cui credo».
Sua madre, come i nonni materni, era attrice. Era inevitabile seguirne le orme?
«Ho studiato Belle arti, perché non volevo recitare. Ma per pagarmi gli studi facevo la comparsa. Dopo cinque anni, mi hanno dato una battuta in un film e mi è piaciuto. Ma mia madre mi ha detto: se vuoi essere all’altezza della famiglia devi studiare. E così a 18 anni sono andato a scuola di recitazione. Ma la mia carriera è dovuta a una gran dose di fortuna».
Perché?
«Da quando ho 21 anni e ho girato Le età di Lulù non ho più smesso di lavorare. Fare l’attore non è facile: da bambino ho visto mia madre piangere disperata perché il telefono non squillava. Per due anni ha fatto altri lavori, come lavare le scale, per mantenerci. Però poi fu scelta per interpretare la regina cattolica Isabella in teatro. Ero in camerino con lei, prima del debutto, e vomitava, perché era nervosa. Poi quando entrò in scena si trasformò. Mi ricordo che pensai: che lavoro straordinario può farti vomitare e, due minuti dopo, trasformarti in una regina?».
A sua madre ha dedicato l’Oscar vinto per Non è un paese per vecchi.
«Avevo preparato un lungo discorso, e Jack Nicholson, che sedeva al mio fianco, mi disse: butta quel foglio, ringrazia le persone con cui hai lavorato, non ti emozionare e dedicalo a tua madre. Ho seguito il suo consiglio. Sa però qual è uno dei premi cui tengo di più?».
Quale?
«Quello assegnatomi da un gruppo di psichiatri nel 2017: hanno giudicato il personaggio di Non è un paese per vecchi lo psicopatico più credibile della storia del cinema. Meglio di Hannibal Lecter e Norman Bates!» (ride).
Come ci si trasforma in mostri così?
«Solo se trovi dentro di te un po’ della loro personalità: devi scoprire che saresti capace di uccidere per ciò che conta davvero per te. A differenza del folle però, che ha un biglietto di sola andata, l’attore ha anche quello di ritorno». ➺ Tempo di lettura: 9 minuti