EDITORIALE
Quando ho chiesto a Isabella Ferrari di posare nuda per la cover di Vanity Fair, nello studio fotografico è calato il silenzio. Sante D’Orazio, il fotografo che l’ha ritratta, ha abbassato la musica e ha alzato le luci. E sul set siamo rimasti in pochissimi.
Isabella è stata professionale e impeccabile. Me la immagino così quando recita una parte difficile o complicata: professionale e impeccabile.
Poi, il giorno dopo, sono iniziati i suoi messaggi via whatsapp.
«Abbiamo fatto bene?».
«Ma siamo proprio sicuri?».
E ancora: «Ce n’era davvero bisogno?».
La risposta migliore ai suoi dubbi, devo ammettere, non è stata mia ma quella di suo marito Renato De Maria. «Sai cos’ha detto Renato delle nostre foto?», mi ha scritto due giorni dopo. «Che il corpo nudo è oggi la cosa più rivoluzionaria che ci sia. Ha citato Umberto Eco: l’apparenza sono i brand che indossi. E un corpo spogliato è invece un ego da decifrare. E tu, cara Isabella, in queste foto mi stai dicendo: io ci sono. E mi appartengo».
A quanti anni si può dire di essere fuori gioco? Quando, nella vita, si deve mettere la parola fine nella rincorsa di un sogno? Questo numero di Vanity Fair e soprattutto la sua star di copertina provano a dare una risposta a questa domanda. Nelle varie interviste e letture che troverete, emerge una costante: la vita non finisce mai. Si complica, invecchia, cambia, sbiadisce, si fa luminosa oppure diventa buia. Ma non finisce. Perché, alla fine, «non conta temere di morire, ma avere paura di vivere», taglia corto Isabella. «È la paura di vivere a fregarti. Solo quella. Soltanto quella».
Buona lettura
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