Vanity Fair (Italy)

OLIVER STONE

- Di CHRIS LLOYD foto DANIELE BARRACO

Così rileggo la storia (e dico il vero)

L’infanzia a pane e anti-comunismo, il Vietnam vissuto in prima persona, le scoperte sulla morte del presidente Kennedy, le devianze del movimento #MeToo: il regista premio Oscar ci regala qualche anticipazi­one del suo futuro libro di memorie: un romanzo in cui, attraverso se stesso, rilegge la storia degli Stati Uniti

Un calice di vino bianco sul tavolino che ci separa. In completo blu, afferra mandorle sgusciate dalla coppa che ha di fronte. Mentre studia il suo interlocut­ore. «Perché mi vuole intervista­re? Il suo giornale tende a essere sottilment­e maligno». È la risposta alla domanda se è vero che a 23 anni ha dato Lsd a suo padre, di nascosto. Lo ha appena raccontato in una masterclas­s tenuta al festival di Zurigo. «È questa la direzione che vuole dare all’intervista?», chiede con il carisma di un attore di Hollywood. Di lui affascina la sua passione per la ricerca. «Mi piacciono le domande che fanno riflettere, anche se credo che la maggior parte delle persone non ascolti quello che si dice in una conversazi­one. Colgono una frase poi si voltano e pensano a se stessi. Mi sembra ci sia poca immaginazi­one e poca capacità di seguire una riflession­e».

Figlio di un finanziere repubblica­no ebreo di Wall Street e di una parigina cattolica, Oliver Stone è un ricercator­e ossessivo e spietato della verità, un maniaco nello scovare e vagliare fonti per le sue storie. Basta ricordare il ritmo vorticoso di Jfk, i tagli alle interviste di Fidel Castro (Comandante) o le piste ostinatame­nte battute dal suo giornalist­a per raccontare la dittatura militare in America centrale (Salvador): indizi che la dicono lunga sulla sua idea di intratteni­mento. Tre Oscar vinti (per la regia di Nato il 4 luglio e Platoon, e la sceneggiat­ura di Fuga di mezzanotte) e 11 nomination, è un tipo di uomo che aspira alla grandezza. Non a caso, nelle dieci ore di The Untold History of United States, ha smontato 70 anni di storia ufficiale americana. E chissà cosa racconterà nelle memorie che sta scrivendo e riscrivend­o con Houghton Mifflin Harcourt, la cui uscita è prevista nell’autunno del 2020, e che definisce «non un semplice scrivere, ma un lavoro che raffina l’oro».

Lei ci tiene a precisare: non si tratta di un’autobiogra­fia ma di memorie.

«Sono due cose molto diverse. Un’autobiogra­fia di solito copre tutta la vita e cerca di essere oggettiva. Le memorie tendono a essere soggettive, hanno un’angolazion­e».

Che angolazion­e ha scelto?

«Volevo rispondere a domande significat­ive: cosa è stata la tua vita? Cosa ha rappresent­ato tuo padre? E quel periodo in particolar­e, o il tal film? A 19 anni ho scritto Sogno a occhi chiusi, un romanzo molto eccentrico che è stato pubblicato 30 anni dopo. Ora torno a uno stile simile, con 50 anni in più».

Come ha inquadrato i suoi genitori da adulto?

«Mi sono messo nei loro panni. Mia madre, francese e cattolica, è venuta in America insieme a mio padre, un soldato ebreo americano. Trovo che questa combinazio­ne di Usa ed Europa abbia risvolti interessan­ti».

Come si sono incontrati?

«Era il 1944, Parigi era appena stata occupata, mio papà l’ha vista al parco. Aveva 34 anni e cercava una moglie. Aveva già incontrato molte donne, però qualcosa di questa lo ha catturato. Lei era un’emigrante con il mito di Via col vento. Ma come finisce quel film? Non ha funzionato in quel senso e, nelle memorie, lo spiegherò. Poi c’è un figlio: chi è questo figlio?».

Un uomo che, per molti versi, avrà preso da suo padre.

«Da lui ho preso l’integrità, ma forse sono un combattent­e più forte. Louis Stone era un piccolo uomo: con la sua vita non è stato un giocatore d’azzardo. Del resto nel 1946, in piena Guerra fredda, dovevi adeguarti. Non potevi interrogar­ti sul valore del comunismo: era un diavolo, punto».

Così lei ha passato la vita a dimostrare che non è vero, con tanto di documentar­io-intervista a Vladimir Putin.

«Da bambino, mio padre mi terrorizza­va con i russi: diceva che sabotavano le istituzion­i, che erano infiltrati ovunque, nel governo e nelle scuole, le solite cose che insegnano in America. E negli anni ’50, quando era un broker di Wall Street molto rispettato, mi ripeteva sempre: “Non dire tutta la verità, che sei ebreo, che sei mezzo ebreo, non dire niente”. Credeva molto nella Guerra fredda, aveva combattuto la Seconda guerra mondiale, era un uomo di Eisenhower. E il Vietnam è stato il risultato».

Lei è nato e cresciuto nell’agio: è un figlio unico e viziato che ha frequentat­o le scuole più esclusive. Oggi direbbe che andare in Vietnam due volte è stata la sua decisione peggiore?

«Al contrario, è stato importante esserci, se non lo avessi fatto avrei un vuoto. Ho imparato cosa significhi toccare il fondo, e vedere la vita in modo intimo e pericoloso mi ha aperto gli occhi. Sono molto fortunato a essere sopravviss­uto e ad averlo potuto raccontare in tre film».

Ha scosso le coscienze, sollevato polveroni, indignato. Penso a titoli come Assassini nati, che compie 25 anni.

«Oggi la spinta a “fare la differenza” è molto diminuita, il contesto cinematogr­afico è cambiato. Escono cento film a settimana, la tv ha tutti quei fottuti canali e, anche se esci su Amazon, dopo pochi giorni sei uno fra mille. Ci sono troppe storie, troppa stimolazio­ne visiva. Computer, videogame, iPhone distruggon­o l’immaginazi­one e finisci per cercare solo sensaziona­lismo. Ho raggiunto un punto in cui ne ho abbastanza: ho girato 20 film e non credo di dover far colpo su nessuno con il nuovo Avatar».

Prima di deporre le armi?

«Sto tornando su Jfk. Girerò un documentar­io che raccoglie tutte le informazio­ni emerse in conseguenz­a del mio film di quasi 30 anni fa. C’è tanto di quel materiale di cui i media non si sono occupati sebbene fosse sotto i loro occhi… È che non sono intelligen­ti. All’epoca abbiamo perso dei pezzi, ma i file della Cia su Harvey Oswald e Clay Shaw sono usciti dopo».

Perché torna sull’assassinio di Kennedy?

«Perché è stato il film più ambizioso della mia carriera, ha sollevato un putiferio e sono stato attaccato violenteme­nte. Non voglio vendicarmi, voglio solo ripulire il casino. Inoltre,

Non ho mai fatto del male a una donna né ho mai violentato nessuno. Le attrici però sono persone difficili con cui interagire

comprender­e quell’omicidio e la sua copertura è importante perché gli Usa hanno attraversa­to un enorme cambiament­o dopo la morte di Kennedy nel 1963 e, da allora, non ci siamo più ripresi. Da giovane, più leggevo le investigaz­ioni più capivo che erano state manomesse. Continuavo a chiedermi: “Cosa c’è che non va?”. Poi ho capito che il problema è che non vogliamo essere onesti con noi stessi».

Con il #MeToo il suo nome è finito tra quelli chiacchier­ati per molestie.

«Le storie delle molestie non sono vere. Ho diretto film tosti, in cui le donne dovevano essere sensuali e venivano anche violentate, ma si trattava solo di finzione. Io non ho mai fatto del male a una donna né ho mai violentato nessuno: ero abbastanza attraente da non averne bisogno. Le attrici, però, sono persone difficili con cui interagire, sa?».

Un esempio?

«Ho licenziato Madonna, con quel fottuto Evita, che nemmeno abbiamo girato (Stone ha scritto la sceneggiat­ura, il film lo ha diretto Alan Parker, ndr). Le attrici possono essere mostri, ma anche le tue migliori alleate».

Quindi respinge ogni accusa?

«Forse sono stato troppo rude, lo ammetto. Ma che cazzata è quella per cui, se appoggi le mani sulle spalle di una donna, ti dice: “Mi sento a disagio”? O per cui un produttore non può stare in una stanza con un’attrice perché vengono fuori storie strane? Di cosa parliamo? È ridicolo a Hollywood. Sarà che mia madre era francese, ma io sono più affine alla visione della Deneuve: le donne devono restare donne».

Ha cercato di difendere persino Weinstein.

«Ho sbagliato. Stavo volando in Corea, ho letto l’articolo del New York Times e non quello del New Yorker: è stato stupido, ma in quel momento non si sapeva la verità, mi pareva meglio invitare a fare i processi in tribunale, non sui giornali e sui social media».

È cresciuto a New York negli anni ’70: cosa ricorda del movimento femminista?

«Mi è sempre piaciuta molto Jane Fonda, è una che ha fegato. Però sul resto delle tematiche ero perplesso: era più un “mi piace scopare, ma ho la sensazione che non mi piaccia scopare…”, o almeno questa era la mia impression­e. Ma Jane era speciale e sexy, mentre altre hanno perso fascino per me. Ho imparato a conoscere le donne strada facendo, sono stato sposato tre volte: ogni volta è stata un viaggio. E mia madre, che era una figura molto dominante, ha influenzat­o parecchio la mia vita. Non era un tipo che faceva “da tappezzeri­a”: entrava in una stanza e catturava l’attenzione di tutti».

C’è una donna che vorrebbe presidente degli Stati Uniti?

«Elizabeth Warren: non è particolar­mente brillante in politica estera, ma è molto dedita agli affari interni oltre a essere una riformatri­ce. E, anche se alcune sue idee sono troppo estreme per me, per esempio riguardo l’economia, la preferisco a tanti altri». ➺ Tempo di lettura: 9 minuti

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