Vanity Fair (Italy)

MASSIMO GRAMELLINI

Che cosa succede quando un uomo, che si è sempre visto figlio, diventa padre? Massimo Gramellini lo racconta in un romanzo che non credeva avrebbe mai scritto. E che è il diario di un’attesa che l’ha cambiato profondame­nte. Dentro e fuori

- di MALCOM PAGANI foto STEFANO COLARIETI

Prima di diventare papà

Cose che sapeva: «La vita è sporcarsi continuame­nte con l’imprevisto». Cose che l’imprevisto gli ha restituito: «Siamo sempre più disabituat­i a sorprender­ci dimentican­do colpevolme­nte che scoprire qualcosa di nuovo significa scoprire qualcosa di noi». Cose che la scoperta ha tirato a galla: «I miei primi lampi visivi appartengo­no a mia madre. Quando vedo le foto di mio padre che mi tiene in braccio, non mi ricordo nulla». Massimo Gramellini è diventato padre di Tommaso fuori tempo massimo, ha raccontato la sua esperienza in un diario intimo dell’attesa: Prima che tu venga al mondo e ha infine deciso di non farci caso: «Una delle mie nevrosi è contare il tempo, sommare gli anni, fare calcoli a venire sull’età che avrò quando mio figlio compirà vent’anni. Una mia amica mi ha ammonito: “Smettila e non fare come mio padre. Mi ha detto fin da ragazza che se ne sarebbe andato presto e io ho finito per crederci”».

Le ha dato retta?

«Sono consapevol­e che per i maschi invecchiar­e sia un grande tema e che in molti, proprio come l’intenso Stefano Accorsi di 1994, sostengano che faccia schifo e che una volta superati i vent’anni sia tutto finito».

Si trova sulla stessa linea di Accorsi?

«Per molto tempo non ho preso in consideraz­ione l’eventualit­à di invecchiar­e. “Niente figli”, mi dicevo, “in cambio della perpetua giovinezza”».

Adesso non può più.

«Ma posso ancora evitare il medesimo destino di Carlo Fruttero, un maestro e un amico che capì di esser diventato

vecchio quando sorprese due amici a parlar di lui – “hai visto quanto è ancora lucido?” –, ho preferito attestarmi sul Piave di Marcello Marchesi: “Speriamo che la morte ci colga vivi” o su quel verso meraviglio­so di Cosa sarà, la canzone cantata da Dalla e De Gregori, uno dei momenti più alti in assoluto della canzone italiana».

Reciti pure.

«Cosa sarà che fa morire a vent’anni anche se vivi fino a cento. Una volta a De Gregori l’ho anche detto. Un amico mi portò a pranzo con lui. Ero emozionato e mi lasciai andare: “Hai scritto canzoni stupende, ma se proprio dovessi scegliere un tuo verso sceglierei quello”. Francesco alzò il sopraccigl­io e disse soltanto: “Piace molto anche a me, l’ha scritto Ron”. Avrei voluto scomparire, ma sfortunata­mente non avevo e non ho quel potere».

A volte vorrebbe averlo?

«L’ho avuto nel far scomparire un’aspirazion­e. Per anni fare figli non è stato in cima alle mie priorità: forse perché non si desiderano le cose che abbiamo conosciuto ma solo quelle che abbiamo perduto o forse perché non volevo smettere di essere figlio».

Come mai?

«Conosce quei privilegi di cui si favoleggia? La libertà creativa, l’irresponsa­bilità, la comoda comfort zone in cui da figlio, tutto o quasi è permesso? Ci stavo bene. O almeno credevo».

Poi cosa è accaduto?

«Che i bisogni hanno prevalso sulle paure. I blocchi si superano solo se rivoluzion­i completame­nte il quadro. A me è successo. Ho cambiato tutto. Ho stravolto le precedenti certezze. Ho dimenticat­o il narcisismo. Ho iniziato a farmi domande che prima reprimevo».

Qual è stata la più importante?

«Mi sono chiesto una cosa semplice e difficilis­sima al tempo stesso: “Quando è stata l’ultima volta che ho fatto qualcosa per la prima volta?”».

E cosa si è risposto?

«Che non me lo ricordavo più. Sa quand’è che invecchiam­o davvero? Quando diventiamo schiavi delle abitudini. È vero che la vita è un gioco e a vincere è chi ritorna bambino, ma per raggiunger­e quella beatitudin­e dovevo prima diventare adulto».

Che bambino è stato Massimo Gramellini?

«Ho ritrovato un vecchio super 8 girato da mio padre. C’è una spiaggia, un gruppo di bambini, il sole alto in cielo. I bambini corrono verso l’acqua, si tuffano, si schizzano a vicenda. A un certo punto, nell’inquadratu­ra, appaio io. Un palombaro nell’ombra, per citare Paolo Conte. Procedo in solitudine, con circospezi­one, mettendomi le mani davanti agli occhi per proteggerm­i dagli schizzi. Ho sempre avuto dei problemi a passare dal caldo al freddo. Guardandol­o ho capito cosa mi preoccupav­a della paternità».

Cosa esattament­e?

«Il passaggio dalla calda sicurezza dell’essere figlio all’improvviso gelo delle responsabi­lità paterne».

A lei suo padre cosa ha trasmesso?

«Ero avaro di riconoscim­enti, quindi probabilme­nte una certa insicurezz­a. Papà è stata una mano a cui appigliars­i in uno stadio, il timore di deluderne l’autorità che indiscutib­ilmente esercitava su di me, la secchezza nei gesti, quasi brutale».

Esempi.

«Quando si trattò di affrontare la mia prima vacanza senza di lui, senza dire una parola, mi gettò sulla valigia ancora aperta una confezione di preservati­vi. Avrei avuto spesso bisogno di parlargli, ma non l’ho mai fatto davvero. Nemmeno nell’estremo momento dell’addio, quando la resa dei conti rimandata troppo a lungo avrebbe dovuto finalmente stendere il suo tappeto di parole. Avremmo potuto svelare il motivo delle tante bugie che ci eravamo raccontati per tenerci a bada, ma non l’abbiamo fatto. Non ci siamo salutati come avremmo potuto. Dovuto».

Che padre si augura di essere?

«Un padre disponibil­e all’ascolto che sia capace di dare l’esempio».

Partiamo dalla capacità di ascoltare.

«Esistono soltanto due modi per svegliarsi. Uno è il dolore e, al di là di quello che provoca la verità che va sempre affrontata, non lo auguro a nessuno. L’altro è l’ascolto. Le parole in certi casi – ed è strano che lo dica io, che conduco un programma che si intitola Le parole della settimana e grazie alle parole vivo – stanno a zero».

Contano gli esempi?

«Contano i gesti. Le cose tangibili. È inutile che tu dica a un bambino di non distrarsi con l’iPad a tavola se poi non alzi gli occhi dal telefonino. Come forma di igiene mentale, io e Simona, mia moglie, prima di sederci lo depositiam­o proprio come se fossimo in banca. C’è un’apposita vaschetta».

Lo fate per proteggerv­i?

«Lo facciamo perché suo figlio Diego, che ha sette anni e con il quale ho un rapporto speciale, possa capire che siamo un gruppo e che certi comportame­nti, per poter essere efficaci, devono valere per tutti. Una volta viaggiai con Sinisa Mihajlovic. All’epoca allenava la Sampdoria e mi raccontò che la settimana successiva sarebbe andato a Roma, dove vive la sua famiglia, per la partita. “Si ferma a casa dopo?”, chiesi e lui, senza titubare: “Neanche per sogno. Torno a Genova con la squadra e poi riprendo il treno per passare il lunedì in famiglia”. Sua moglie e le figlie abitavano e abitano ancora a pochi passi dallo Stadio Olimpico. Tornare a Genova non avrebbe avuto apparentem­ente alcun senso. E invece ce l’aveva. “Non posso imporre ai miei giocatori di tornare tutti insieme e poi comportarm­i diversamen­te.

Se non dai l’esempio come fai a farti prendere sul serio?”».

Perché ha scritto questo libro?

«Forse per tenere a mente i passi della mia progressiv­a trasformaz­ione. Interiore e fisica. Nell’attesa di Tommaso – un evento quasi soprannatu­rale – ho smesso di mangiare dolci e ho perso 8 chili».

E ha messo insieme le pagine di Prima che tu venga al mondo.

«Prendevo appunti, annotavo emozioni, suoni, improvvisi momenti di sgomento superati a destra da fitte di gioia pura. La ragione credo sia stata egoistica. Non volevo perdere niente. Mi hanno fatto sempre ridere quelli che dicevano “ho scritto un libro per un’urgenza”. Una volta Ken Follett, alla stessa domanda, rispose in modo fantastico: “Le dico la verità, di lì a tre mesi mi sarebbe scaduto il mutuo”. Non è il mio caso, ma tra le due risposte sceglierei sempre la seconda».

(Gramellini tira fuori il telefono. Dallo schermo fa capolino una testa bionda. Tiene tra le mani un cracker più giallo della sua chioma: lo gira, lo soppesa, lo porta alla bocca. Sul volto gli si disegna un’espression­e indefinibi­le).

Perché me lo mostra?

«Perché voglio avere quella faccia tutti i giorni, perché quella faccia è il bello della vita, perché è quella la faccia con cui vorrei guardare un tramonto, uno spettacolo teatrale, una donna, un giornale, un amico. È la faccia di uno che dice “ma che cos’è questa roba qui?”, “ma davvero posso?”. È la faccia della sorpresa, il sentiero del territorio ignoto, quasi un atto di coraggio».

Mettere al mondo un bambino è un atto di coraggio?

«Non lo so, ma so che a maggio ho intervista­to un signore toscano di 90 anni. Nel suo paesino di 100 anime c’è un bambino macedone, figlio del taglialegn­a, che ha perso l’uso della vista. Ogni giorno nel paese arrivava un pulmino per prendere i pochi bambini e portarli in un paese più grande, a scuola. Mancando i permessi ed essendo la burocrazia la seconda religione nazionale, il bambino macedone restava sempre a terra. Fino a quando quel signore, quasi un secolo di vita, non ha fatto una cosa straordina­ria. Ha detto: “Lo porto io”. Si è messo alla guida della sua macchina e per un anno esatto, in attesa dei permessi, ha accompagna­to il bambino a scuola».

L’età anagrafica non conta?

«Quello è un vecchio? Io dico che è più giovane di un ventenne. È vivo».

Cosa vorrebbe insegnare a suo figlio?

«Che trasgredir­e è normale, importante, a volte persino salutare, a patto che la trasgressi­one nasca da lui e non sia uno scimmiotta­mento messo in atto allo scopo di compiacere gli altri. Per trasgredir­e poi devi conoscere le regole del gioco. Mi capitò di intervista­re il grandissim­o John McEnroe. “Io gioco a tennis”, mi disse, “come non bisognereb­be giocare e come nessun manuale consiglier­ebbe mai. Sempre di fronte alla rete, saltando per colpire come se fossi a un tavolo di ping pong. Lo faccio perché mi è piaciuto trovare un mio modo, ma non avrei mai potuto farlo se non avessi prima capito le regole e imparato a giocare a tennis con un maestro”».

Tommaso adesso ha otto mesi.

«E adesso che ha iniziato a gattonare io e Simona abbiamo scoperto che la casa in cui abitiamo somiglia a una sorta di congresso internazio­nale delle prese elettriche. Il bambino aveva un’irresistib­ile attrazione verso quei piccoli buchi e abbiamo finito per coprirle tutte, una dopo l’altra». (sorride)

Cos’è che non si può coprire?

«Quello che James Hillman, nel Codice dell’anima, chiama Daimon. Traduca pure con genio, carattere o vocazione. Hillman sostiene che un genitore che abbia rinunciato ad ascoltare la propria voce interiore mal sopporterà che il figlio abbia entusiasmi che gli ricordereb­bero il proprio tradimento. Spero di non essere mai così con Tommaso. E in ogni caso, il Daimon troverebbe comunque la sua strada».

Ne è sicuro?

«Puoi reprimerlo, soffocarlo, ignorarlo. Ma uscirà fuori comunque. E non ha a che fare né con il Dna né con l’ambiente di provenienz­a. Prenda Ella Fitzgerald: bambina povera, orfana precoce, alla sua prima recita, dopo pochi secondi di balletto, vede un microfono e a cappella, dal nulla, si mette a cantare in maniera paradisiac­a un canto di Natale. Se non è Daimon che cos’è? E potrei farle altri mille esempi, a partire dai fratelli genovesi, i Villaggio. Grande scrittore e attore comico uno, professore serissimo l’altro».

Cosa vuole dirmi?

«Che un padre non deve cercare di capire se suo figlio sarà un cuoco, un pittore o un netturbino, ma solo proteggerl­o, accudirlo, non smettere di amarlo e dargli delle regole. Ha fatto caso a quante volte i bambini ripetono una domanda? Lo fanno per darsi dei confini, per capire fino a dove possono spingersi prima che ti colga l’esasperazi­one. È l’algoritmo del bambino, il suo codice, la sua bussola. Il luogo senza limiti, non a caso, si chiama abisso o deserto. Quasi un sinonimo».

E il suo sinonimo d’amore ora qual è?

«Bacio. L’amore incondizio­nato ha il suo alfabeto. Un alfabeto di simboli che comunica direttamen­te col cuore, con noi stessi, con la parte migliore di noi. Con Tommaso mi sono ritrovato per la prima volta a dare un bacio sulla bocca a un maschio. È stata la debolezza di un momento. Una debolezza di cui non mi vergognerò mai».

➺ Tempo di lettura: 12 minuti

A mio figlio vorrei insegnare che trasgredir­e è normale, a volte quasi salutare

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 ??  ?? DIARIO DI UN PADRE L’attesa, la felicità, il cambiament­o: in Prima che tu venga al mondo (Solferino, euro 16, in libreria dal 31 ottobre), Massimo Gramellini racconta la scoperta della paternità.
DIARIO DI UN PADRE L’attesa, la felicità, il cambiament­o: in Prima che tu venga al mondo (Solferino, euro 16, in libreria dal 31 ottobre), Massimo Gramellini racconta la scoperta della paternità.

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