Non ho più paura
«L’unico modo per affrontarle», sostiene Cesare Cremonini, «è prenderle alle spalle, lanciandosi nel vuoto». A un passo dall’uscita del nuovo disco e a pochi mesi dalla nuova tournée negli stadi italiani, il cantautore bolognese elabora lutti, gioie, ricordi e nuove consapevolezze
Con la vita nei calzoni e col destino in mezzo ai denti, Cesare rimane a bagnarsi ancora un po’: «Sto per compiere quarant’anni e sarei un bugiardo se dicessi che non è una cosa su cui sto riflettendo. Piano, piano, come un tarlo, l’età a cui sto per approdare mi sta entrando nella mente. La sponda da cui sono partito non è il luogo in cui mi sto dirigendo adesso, ma sta accadendo qualcosa di strano: più mi allontano da chi ero, meno me lo ricordo. E mentre navigo, mi sento senza mappa. Felicemente smarrito. Circa un mese fa ho perso mio padre, e mentre mi occupavo di quelle disgustose faccende che si impossessano del quadro quando se ne va una persona che ami, mi sono distratto totalmente dal mio percorso. A un tratto mi sono voltato indietro per ricercare la riva, la riva che mi aveva sempre fornito le coordinate per orientarmi e non sono più riuscito a metterla a fuoco. Non c’era più. E con lei i ricordi. Annebbiati, confusi, indefiniti. In quel momento ho capito che ero in mare aperto. Forse avere quarant’anni ha proprio questo di bello: per la prima volta non ho un punto di riferimento e credo sia un bene. So che nessuna burrasca mi può uccidere e che la rotta è tutta da inventare. Le carte sono sparpagliate sul tavolo. Sta a me giocarle, interpretarle, leggerle». Di Cesare Cremonini, che muove le mani e ripete «estremamente» per scolpire i concetti e consegnare loro una patente di stabilità, molto hanno detto e ancor di più hanno presunto. Lo hanno chiamato «vincente» all’epoca in cui l’estate avanzava al ritmo ronzante di una Vespa in marcia sui colli bolognesi e in tanti erano pronti a scommettere sull’incidente in agguato dietro alla curva del successo precoce per poi paragonarlo a Dalla o a Battisti, due decenni più tardi, quando l’indagine su un ex ragazzo prodigio inseguito dal sospetto fin dagli inizi si incaricava di spiegarci che raccontando le nostre solitudini e gli amori alla ricerca di una soluzione da cruciverba, Cremonini era diventato, finalmente, un autore: «È passato tanto tempo da quando ho iniziato: ho vissuto un sacco di vita e un sacco di grandi trasformazioni. So che altre ne arriveranno anche se il punto di arrivo di questo viaggio non ha ancora un nome».
La spaventa?
«No. La confusione mi affascina. E anche se il domani è una nebulosa è molto meglio avere incertezze sul futuro che avere la certezza che faccia schifo».
Cosa trova nello smarrimento?
«Sono sempre stato convinto che nei momenti di smarrimento sia più facile riconoscere la nostra unicità. “Don’t think twice, it’s all right”, per citare un Dylan fuggitivo e vagabondo, significa riprendersi la propria vita uscendo di notte dalla finestra del passato, possibilmente al canto del gallo. Dove finiscono le strade, è proprio lì che nasce il giorno».
E lei l’ha trovata la via d’uscita?
«Mi sono impegnato per farlo. È da quando sono bambino che cerco di affermarmi, e non ho mai creduto di esserci riuscito. Lo sanno bene i miei amici perché a volte, se ci capita di cenare insieme, posso essere ingombrante. L’affermazione di sé per chi sale su un palco è importante tutti i giorni, ma anche se il mio mestiere per definizione ha a che fare con l’ego, provare a brillare di luce propria non necessariamente è sinonimo di narcisismo. Tutta la mia vita in realtà è stata una corsa a trasformare i sassolini più comuni in pietre preziose. Una cosa difficile. Un’impresa».
Dalla diceva che l’impresa eccezionale fosse essere normale e Bennato sosteneva che chi è normale non avesse poi chissà quale fantasia.
«Lucio Dalla una persona comune non era di certo. E di normale nei miei ultimi vent’anni c’è stato ben poco. Scommettere sul proprio talento da quando sei nato non è la prima cosa che ti insegnano a scuola, dove vieni preparato per difenderti e non per attaccare. Ma nell’affrontare questa difficoltà sono stato sempre orgoglioso di non mostrare difese di fronte al pubblico».
Perché?
«Perché ho creduto in me stesso e ho portato in giro la mia insicurezza come una fede. Non mi sono mortificato né ho nascosto la mia natura piena di contraddizioni. Le canzoni sono l’unico binario che ho seguito e continuerò a farlo. “Lei non crolla mai, non ha un posto preciso in cui cadere”. Ancora Dylan».
Ancora tre settimane e uscirà il suo nuovo disco. Sei inediti e 32 canzoni scritte dal 1999 a oggi in cui non è difficile scorgere un’autobiografia.
«Le riascolto con emozione e tocco con mano tutte le mie vecchie ingenuità, le paure, i grandi entusiasmi a volte immotivati, il sentimentalismo sfrenato, il mio bisogno d’amore per guarire non so da quale malattia immaginaria. C’è tutta la mia vita dentro, ma solo ora, dopo tanti saliscendi, vedo una pianura di fronte a me. Somiglia alla terra da cui provengo,
L’esempio di mio padre valeva molto più della sua presenza: mi ha fatto sempre sentire protetto e non certo perché giocasse a pallone con me
l’Emilia. Ho intenzione di percorrerla, in maniera più pacifica di ieri».
Cremonini è mai stato in guerra?
«La mia guerra è contro di me e basta. Non ho altri nemici e non porto mai rancore. Due anni fa sono uscito con Possibili scenari: due anni e mezzo passati in studio, tra i foglietti, i microfoni e i cartoni di pizza, l’isolamento. Le canzoni possono essere oggetti pericolosi. Mi sono abbrutito, ho sofferto fino ad avvertire una sorta di schizofrenia e mi sono promesso che non lo avrei fatto mai più. È stata una grande sfida nei confronti di me stesso e un salto nel vuoto perché, anche se il mondo della musica ha avuto e avrà sempre gente più brava di me, confrontarsi con i propri limiti per superarli non è un esercizio ozioso. Quel salto carpiato eseguito con Poetica mi ha reso più forte e più maturo e ora mi preparo all’uscita del mio prossimo disco senza nessun tipo di problema. Due anni fa ero decisamente più in paranoia. Avevo paura di aver dato tutto e poi perdere. Mi immaginavo crollare a terra come i maratoneti a pochi passi dal traguardo. Ora non più».
La parola paura accompagna la nostra conversazione.
«Bisogna fare una premessa: sono nato nel 1980. La mia generazione è stata lasciata abbastanza sola per emanciparsi e poter fare a meno degli altri. Questo ci ha fatto diventare adulti in fretta. Mia madre era presente, voleva che andassi bene a scuola e sul tema a tratti era ossessiva, ma non controllava i miei diari. Mio padre invece lavorava come un pazzo, ho preso da lui anche questo, ma pur nell’assenza, tornava a casa tutte le sere e non mi chiedeva cosa c’era che non andava e cosa invece andava bene, ma di suonare qualcosa per lui. Era ancora un’epoca in cui gli adulti esistevano solamente nel momento del rigore, ma poi già a 9-10 anni si andava a scuola e si tornava da soli. Da ragazzini eravamo soli nel gioco, soli nei pomeriggi in camera con l’amico, soli davanti al primo film horror, alla prima donna nuda vista in tv, alla prima sbornia. Si combinavano i guai, si piangeva e si soffriva fortunatamente da soli».
Premessa recepita. E poi?
«Oggi molti adulti, per precauzione mi ci metto dentro anche io, sentendosi eternamente giovani, occupano tutti gli spazi destinati ai più piccoli, che non hanno più la propria privacy per giocare in santa pace. Trovo invadente la presenza degli adulti nei social per ragazzini, per esempio. Non solo, appena ne esce uno nuovo, più cretino è e più gli adulti ci corrono dietro, ma i primi a invischiarsi sono la categoria più indifendibile: gli adulti vip. Andare a caccia di like tra i minorenni sembra essere diventata la nuova occupazione di un sacco di persone. Mi chiedo se i ragazzini di oggi se ne accorgano o ne abbiano paura».
Quando è stata l’ultima volta che ha avuto paura?
«Quando è morto mio padre la parola paura ha assunto un significato molto più chiaro rispetto a prima. Nella vita ho sempre fatto tutto praticamente da solo, e dopo tanti anni di autosufficienza emotiva mi sono trovato improvvisamente nella condizione di non avere la più pallida idea di come si affrontasse qualcosa di totalmente nuovo: il lutto. È stata la prima volta negli ultimi venti anni in cui ho avuto davvero paura di qualcosa».
Una paura provocata dal dolore?
«Il dolore esiste perché non poter mai più vedere una persona e capire che è finita per sempre, è inconcepibile. Allora mi sono chiesto “Cosa posso fare?” e strada facendo l’unica risposta che mi sono dato è che non avrei voluto perdermi per niente al mondo la possibilità di attraversare quel momento della mia vita esattamente per quello che era. Non avrei mai voluto fare a meno di attraversare anche quella sfida: la paura non è altro che un trampolino altissimo da abbandonare in fretta. L’unico modo è lanciarti nel vuoto. Affrontarlo, il vuoto. Prenderlo alle spalle».
Lei disse che la sua vita sarebbe cominciata solo dopo la
morte di suo padre. È davvero così?
«Ci si prende alcune responsabilità che prima si evitavano. Mi sono sempre chiesto cosa sarei diventato nel momento in cui lui non ci fosse stato più, credo sia una domanda comune. Ma nel mio caso mi domandavo soprattutto se la sua scomparsa mi avrebbe liberato da alcune catene che comunque, in qualsiasi famiglia si cresca – e la mia è stata per così dire sentimentalmente intensa – ci si porta sempre dietro. Il rispetto di un padre lo si misura anche nel rispetto dei suoi valori finché è vivo, anche se non li condividi».
Si è liberato?
«È successo. In passato mi sono sempre preoccupato di dover difendere la mia famiglia dal mio ruolo pubblico, per esempio, ma ora forse non ce n’è più bisogno. Ho spezzato le catene più antiche e forse per filologia mi è restata questa: una bellissima catenina d’oro del 1920. Era quella che papà portava sempre al collo. Adesso la tocco e lo sento vicino, papà».
Cosa le è rimasto oltre alla catenina?
«Il suo esempio per me valeva molto più della sua presenza. Credo sia un errore mitizzare i padri moderni sempre presenti e complici dei figli. Sono cresciuto con un padre che mi ha fatto sentire protetto perché mi ha dato un esempio forte e non perché giocasse a pallone con me. Facendo questo mi ha evitato lo strazio del mostrarsi sbagliato, infantile, perdente, debole o commosso. Mostrava altre doti, era generoso, sapeva farsi amare con l’ironia, non era mai ruffiano con i potenti, covava passioni nascoste: la cura dell’uomo, i libri, la poesia, le collezioni».
C’è più poesia in un gesto di Baggio o di Valentino Rossi che in tanti testi di canzoni di oggi definiti poetici
Sua madre?
«Mi proteggeva in un modo tutto suo. Se l’allenatore della squadra di calcio voleva farmi giocare lei lo dissuadeva chiamandolo di nascosto: “L’ho visto un po’ emaciato Cesare, perché non lo lascia in panchina domenica?”. Adorabile. Sa quante volte l’ho rimproverata perché entrando in macelleria dice: “Mi dia la carne buona perché la mangia anche Cesare”? “Mamma ti prego non lo fare più”, le ho intimato. “Se poi faccio una brutta canzone e ti danno gli scarti?”». (sorride)
Quarant’anni è un’età adattissima a un bilancio.
«Sono andato oltre le mie aspettative: a 11 anni, fantasticando a letto, covavo desideri nitidi. Volevo fare grandi concerti negli stadi, comporre canzoni cantate da milioni di persone, scrivere una pagina della musica italiana. Non tutto il libro eh, una pagina soltanto, ma mia. Tutte queste cose sono successe. E ne sono accadute altre, ancora più sorprendenti, inimmaginabili. A Natale, nel centro di Bologna in cui non si perde neanche un bambino cantato da Dalla, la strada preferita di Lucio, via DA’ zeglio, verrà addobbata con le parole del testo di Nessuno vuole essere Robin. È un onore finora concesso soltanto a lui e in un Paese che è ossequioso verso i morti e indifferente ai viventi, è un segnale che va preso al volo. Cercherò di non montarmi la testa (sorride). Di godermi questa cosa e riderci sopra con ironia».
Dopo i dolori, sembra un bel momento.
«È un momento meraviglioso perché imprevedibile. E anche se sto diventando un altro, capisco che un periodo è passato per sempre. D’altra parte conosce un artista che sia rimasto ragazzino in eterno e abbia scritto anche buone canzoni? Adesso so che la cosa più importante che posso fare, la ricompensa maggiore che mi possa sfiorare, non è pormi altri obiettivi ma vivere. Ho tutta l’intenzione di farlo. Non sono figlio d’arte, non ho parenti in ambito musicale, non ho avuto nessuno che mi abbia detto come si fanno le canzoni, nessuna scuola per stare sul palco, nessuno che mi abbia regalato qualcosa. Non dirò che me lo merito, ma un po’ me lo merito». (sorriso largo)
Senza obiettivi concreti cosa resta?
«L’amore. Sarà il collante di tutto. Lo è già e d’ora in poi sarà sempre di più la fune che tiene unite tutte le mie aspirazioni».
Anche un figlio?
«L’amore e le sue conseguenze saranno il centro della mia vita. Life is for living e quindi accadrà. È logico. Spero che
questa risposta valga un bollino nella tessera punti Vanity sui figli!». (ride)
Per scrivere «Possibili scenari» mi sono abbrutito per due anni: non ho più nessuna intenzione di farlo
L’amore di ieri: citiamo da GreyGoose: «Chi sei? Amore buongiorno/ quando ti levi di torno non vedo l’ora/ che esci e non torni più/ il mio amore sei tu».
«Dai 18 ai 30 anni la mia vita è stata molto simile a quell’incipit di canzone. È molto autoironico, non gioca certo sull’idea di strapazzare le donne per una notte, anche perché potrebbe succedere l’esatto contrario e nessuno si meraviglierebbe. Ma di sicuro in quel lasso di tempo penso di aver vissuto godendo appieno di tutte le mie fortune. Stamattina sono andato a comprare due libri e mentre tornavo indietro, ho incrociato lo sguardo di una bellissima ragazza. Le si sono illuminati gli occhi. I suoi e i miei. La mia ragazza non se ne avrà sicuramente a male, ma io credo che idealmente dovremmo provarci con qualcuno tutti i giorni!».
Ci spieghi provando a evadere dal cliché da conquistatore seriale che per anni le hanno affibbiato.
«Chi meglio di lei può capirmi? Provarci in senso lato, ovviamente, senza pensare allo sguardo come un atto finalizzato a un secondo fine, piuttosto a un ballo, a un gesto galante, gentile, alla maniera di mio padre. Nel magico decennio della mia giovinezza ogni tanto gli facevo conoscere le mie ragazze. E me lo ricordo bene il babbo, educato, gentile, in certi casi persino umile. Un uomo arrivato, anzi stra-arrivato, che aveva avuto esperienze sicuramente più hardcore di quelle che ho vissuto fino ad adesso io, che implicitamente riconosceva la superiorità della donna e la omaggiava alzandosi, salutando, offrendo sempre un bicchiere e chinandosi per il baciamano».
Era un atteggiamento antico?
«Aveva nei confronti della bellezza una reverenza figlia di un’epoca in cui poter soltanto stringere la mano a una bella ragazza somigliava a un’impresa. Questa reverenza, non per caso sono un Cremonini, io ce l’ho nel sangue. È un gioco innocente, ma riconoscere alle donne non solo la loro bellezza, ma anche la loro intelligenza e le loro virtù, soltanto con un sorriso non può essere un male. Siamo entrati in un secolo che a livello globale, sociale e politico, è e sarà loro. Mentre noi stiamo qui a contare i soldi persi o vinti nelle nostre battaglie feudali e ci lecchiamo le ferite di una notte bagorda, la donna forse possiede meno autoironia ma parla di anima, viaggia, visita musei, insegue cultura, arte, cerca una crescita personale».
Intanto però mettere la foto della sua fidanzata su Instagram le è costato qualche like.
«I commenti sui social si somigliano tutti. Quelli che scrivono a me non sono dissimili da quelli che scorrono sotto gli account dei miei colleghi, dei politici, degli sportivi, dei giornalisti. Fa parte del gioco, le cose vanno prese per quello che sono. Sa perché ho postato quella foto?».
Ce lo dica.
«Un mio caro amico, prendendomi in giro, mi aveva provocato: “Tu sei molto riservato perché in realtà sei geloso” e io ribattevo con lo stesso senso di protezione che mi spingeva a suggerire a mia madre un profilo basso in macelleria: “Non voglio che qualcuno paghi per i miei errori e che prenda critiche che investirebbero me”. Per verificare l’ipotesi, ho dato retta all’amico. Alla fine però credo sia meglio non mettere fotografie personali sui social dove tra l’altro, a parte la fase di promozione che ubriaca i cantanti e altera tutto, nella quale sei molto eccitato e un po’ enfatico, tendo a presentarmi per quel che sono, con il mio modo di essere. Stare sul mio Instagram non è poi molto diverso dal passare un pomeriggio con me a Bologna in una giornata rilassata. Una commistione di poesia, romanticismo, cazzeggio, semplicità e illogicità».
Quanto c’è di illogico nello scrivere canzoni?
«Scrivere canzoni non è una cosa seria e per questo a volte è necessaria. È come guardare la polvere in controluce. C’è un momento preciso: la finestra è aperta, entra un raggio di sole e tu sei nell’angolo giusto per vedere quello che normalmente non vedresti. Intendo dire che attraversare le cose non
è figlio della volontà, ma della giusta prospettiva per inventare».
E i paradisi artificiali, servono, per inventare?
«In tutte le parabole artistiche esistono momenti di difficoltà e di solitudine soprattutto quando un ragazzo come me, cresciuto praticamente da solo, si è trovato a cadere per terra e a doversi rialzare da solo più volte. Da quando avevo 18 anni bado a me stesso e nella vita ho provato e fatto qualsiasi cosa, ma non ho mai pensato di fare cazzate per dare un senso alla mia esistenza. Per me la baldoria, l’alcol e il perdere il controllo sono sempre stati legati all’idea di festeggiare qualcosa. Ho sempre inteso il divertimento alla stregua di un omaggio al bello della vita: come ubriacarsi al matrimonio del tuo miglior amico, ma nel mio studio di registrazione e sul palco io sono sempre stato lucido. Non c’è mai stata un’occasione in cui non lo sia stato».
Come mai?
«So che un atteggiamento diverso mi metterebbe nei guai rispetto alla realizzazione dello spettacolo. E lo stesso vale per la scrittura delle canzoni: una cosa che ha a che fare con un contatto profondo con le emozioni che provi. Come fai a confonderlo con qualcosa che disturba questa fluidità? Non sono Baudelaire e mi sarebbe impossibile scrivere senza essere lucido. Anche se lo avessi voluto, non avrei saputo come fare. Non ho mai capito come abbiano fatto i grandi artisti della storia del rock a esibirsi in certe condizioni. Me lo chiedo tutte le volte che mi ritrovo a suonare in pubblico: devo essere concentrato, in grado di controllare perfettamente lo show, tenerlo nelle mie mani. La droga non sempre fa questo effetto e non so come si possano affrontare sessantamila persone senza essere presenti a se stessi».
Cremonini, lei si piace?
«Il bisogno di ritrovare ogni giorno la sicurezza in se stessi nello sguardo degli altri c’è. Chi nega, mente. Onestamente, mi piacciono le mie espressioni, il mio essere storto, il mio modo di guardare alle cose. Certo non sono un adone. Quando ero bambino chiedevo a mia madre se ero bello e lei: “Cesare, bello non sei, però sei buffo”. Quello sono restato, anche per i miei amici: uno che si mette al centro dell’attenzione per essere più buffo che bello. Questo non significa che in questo mio modo di essere io non mi trovi bellissimo». (altro sorriso)
Ha cantato di Senna e di Baggio. Ora a Bologna, con la sua storia, c’è Sinisa Mihajlovic.
«Sono un grandissimo appassionato di sport perché in un mondo che ha perso non solo la comprensione dell’altro, ma quasi del tutto la fantasia e l’immaginazione, cioè le chiavi di qualsiasi possibile immedesimazione con il prossimo, tanto dall’essere indifferenti e dal considerare normale che in una notte fredda un essere umano anneghi nel Mar Mediterraneo, sapere che esiste ancora un ambito in cui c’è qualcuno che si commuove per la felicità di un’impresa commuove anche me. In una società che non sa più immaginare neanche se stessa se non guardando lo schermo di un telefonino o contando i like, lo sport è un’isola felice piena di belle storie vere. Mihajlovic fa parte di queste storie».
Ho provato qualsiasi cosa, ma non ho mai fatto cazzate per dare un senso alla mia esistenza
In che modo?
«Bologna è una città che ha vissuto fianco a fianco con personaggi di dubbio valore sportivo: presidenti avventurieri, allenatori egocentrici, giocatori che forse anche per colpa dell’ambiente non hanno mai sudato l’anima. Poi arriva Sinisa. Con la sua silenziosa dignità. Con il suo esempio. Un uomo vero. Una grande persona. Ci ha dato più lui in queste settimane, che tutto il Bologna in dieci anni. Dentro lo sport pulsa un microcosmo straordinario. Che è fatto di sacrificio, di semina e di raccolto. C’è più poesia in certi gesti sportivi di Valentino, Roberto Baggio, Federica Pellegrini, Matteo Berrettini, che in tanti testi di canzoni di oggi che vengono definiti poetici».
Seminare e poi raccogliere capita anche a voi.
«È diverso. Lo sportivo ha quasi ogni domenica la possibilità di una rivincita. Se un cantante sbaglia un disco ci mette anni a riprendersi e non è neanche detto che ci riesca. Certo un vantaggio rispetto agli sportivi lo abbiamo».
Quale?
«Non abbiamo una vera e propria data di scadenza. Possiamo scrivere canzoni fino a 90 anni e pubblicare dischi fino a quando siamo al mondo. Io, a quarant’anni, mi sento di aver appena cominciato».
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Pagg. 42-43: trench, LES HOMMES. Pagg. 44-45: camicia, DRIES VAN NOTEN. Pag. 46: trench, LES HOMMES. Blazer, PAUL SMITH. Pag. 48: giacca, MARNI. Pag. 50: blazer, DRIES VAN NOTEN. Camicia, MARNI. Ha collaborato Cristina Archetti. Make-up Anna Maria Negri@Julian Watson Agency using WOMO Bullfrog. Hair Silvano Dottori per Equipe Vittorio. Talent stylist Paola De Cegli.