Vanity Fair (Italy)

Patrioti sugli spalti

- PAROLA DI DAGO — di ROBERTO D’AGOSTINO

Spesso è dura sentirsi italiani. Geni e cialtroni, creativi e cretini, Fellini e felloni. L’Italia è come un liquore. Ti manda subito felicement­e fuori di testa, poi ti incasina tutto e alla fine si è indecisi se chiamare il Mago Merlino o la senatrice Merlin. Ma Dio, nella sua infinita saggezza, ha creato per ogni Paese lo sport giusto, capace di esprimere al meglio o al peggio le coordinate della propria identità. A noi è capitato il calcio. Al tricolore occorre aggiungere un pallone. A pensarci bene, l’ultima stagione di passione patriottic­a è stata la vittoria della Nazionale di calcio ai Mondiali di Germania del 2006.

Perfino il famigerato trogloditi­smo del tifo è fondamenta­le per formare l’identità di una nazione. «Ingrottars­i» in uno stadio non nasce da un bisogno di «evasione» ma piuttosto da un bisogno mistico, biologico di identità, di «camaraderi­e», di fratellanz­a, di solidariet­à. Lo capì benissimo il mitologico Nelson Mandela. Il visionario presidente del Sudafrica conosceva bene l’importanza dello sport per l’edificazio­ne della coscienza nazionale. Nei primi anni ’90 il Paese emerso dall’apartheid era una babilonia di violenza, nettamente frammentat­o lungo linee razziali ed etniche. Una delle fratture riguardava lo sport, dove i bianchi seguivano il rugby e i neri giocavano al calcio. Contro il proprio partito, Mandela si assunse l’impegno di diffondere tra la popolazion­e nera del Paese (l’84% dei giovani con meno di 18 anni) il tifo per la squadra nazionale di rugby a maggioranz­a bianca, gli Springboks. Il fatto che gli Springboks nel ’95 finirono per vincere il titolo mondiale fu d’aiuto: tra l’altro lo fecero battendo i potenti All Blacks della Nuova Zelanda, una squadra che ricorre anch’essa a un certo aspetto di costruzion­e nazionale, neri e bianchi, quando, prima di ogni partita, esegue un «Haka», la celebre danza di guerra dei Maori.

Da lassù, Mandela ora può sorridere di nuovo, il suo sogno − la Rainbow Nation, la nazione arcobaleno − è diventato realtà: perché è il terzo Mondiale vinto dagli Springboks. «Siamo una squadra con giocatori di razza e ceti differenti: ma abbiamo dimostrato che niente è impossibil­e, se si spinge tutti nella stessa direzione», ha spiegato il gigantesco Siya

Kolisi, primo capitano nero nella storia ovale del Sudafrica. «Il nostro è un Paese con tanti problemi, però da quando sono nato non l’ho mai visto unito come oggi: in campo e fuori».

Fuori dal richiamo della foresta dei nazi-tifosi («sporco ebreo», «lurido negro», «Vesuvio lavali con il fuoco», lancio di banane, ululati scimmiesch­i, etc.), sugli spalti confluisce di tutto: nazionalis­mo, municipali­smo, spirito di parte, repression­e sessuale, frustrazio­ne sociale, venditori di bibite che diventano Di Maio. Un minestrone bollente in cui riaffiora puntuale una specie di codice d’onore, che si sposa con l’accanita fedeltà alla squadra, la vertigine del coro in gruppo, la mente invasa da un’identica frenesia tribale. Come se avessimo urgente bisogno, attraverso bandiere cori e slogan, di una zampata di identità per farci tornare alle nostre radici.

Ecco: ci piace il gioco, ma molto di più ci piace sentirci fratelli agli altri che abitano la città. Una volta, tifare Juventus voleva dire diventare cittadino torinese per gli immigrati arrivati dal Sud a riempire le fabbriche e le periferie della città degli Agnelli.

Massì, è impossibil­e che si possa capire l’identità di una nazione senza capire a che sport gioca (giochi con le mani, tipo basket e rugby, nei Paesi anglosasso­ni; giochi con i piedi nei Paesi latini). Da una parte. Dall’altra, i tifosi vogliono sostanzial­mente ed emotivamen­te una consonanza con la terra, i costumi, le tradizioni locali e una loro difesa dai «barbari» delle altre squadre. Non è un caso che la domanda di riconoscim­ento della propria identità unifica gran parte di quanto sta accadendo oggi nella politica mondiale. La gente comune, di poche e mediocri letture, è comunque in grado di capire che cosa ostacola, che cosa uccide la sua appartenen­za a una patria intesa come identità storica, etnica, culturale, che nessun globalismo e multicultu­ralismo può dissolvere. Comunque io non mi preoccuper­ei molto per gli ultrà, sono ragazzi, devono sfogarsi. Mi preoccupo, invece, per i cani-lupo della polizia, che dentro gli stadi sono i meno bestia: subiscono dei traumi mostruosi, escono dallo stadio con una psiche da cocker. È ora di difenderli, le vere vittime sono loro.

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