Ogni sogno è una conquista
Per l’attrice premio Oscar, è questo il compito di chi recita: studiare la vita, nutrirsi di empatia. Lei, superando molti ostacoli, ce l’ha fatta e dice: «La bambina che ero sarebbe orgogliosa della donna che sono»
«Che cos’è la bellezza? Secondo me ha a che fare con l’autenticità. Vuol dire essere sicure di se stesse, sentirsi a proprio agio. Quando ero piccola i miei modelli di riferimento un po’ mi somigliavano. La cantante nera Melba Moore e l’attrice Cicely Tyson con i suoi meravigliosi capelli afro e quei vestiti coloratissimi. Ma anche Diane Keaton e Meryl Streep. Tutte loro avevano uno stile particolare e una grande naturalezza, non avevano bisogno di abiti vistosi per farsi notare».
Viola Davis è arrivata con il marito Julius Tennon e si è seduta in punta di divano. È fasciata in un abito lungo, bianco, elegante e semplice, che le lascia spalle e braccia scoperte. I ricci con i quali se n’è andata in giro fino a qualche ora fa hanno lasciato il posto a un caschetto liscio. È pronta per il red carpet della Festa del Cinema di Roma, dove l’aspettano per consegnarle il premio alla carriera. Intanto, davanti all’Hotel de Russie, un gruppo di fan è in attesa da ore. A 54 anni, dopo aver vinto tutto – un Oscar, un Golden Globe e un Bafta per Barriere del 2016 e, prima ancora, due Tony Awards per il teatro – e dopo essere stata scelta, lo scorso settembre, come nuova testimonial di L’Oréal Paris, ha messo finalmente a tacere le insicurezze che l’hanno tormentata per anni.
Quando ha cominciato a sentirsi a proprio agio con se stessa?
«Dopo i 45 anni. C’è voluto tempo per imparare ad amare il colore della mia pelle, la forma delle mie labbra, il mio naso. Non solo ad accettare ma ad accentuare tratti che, fino a non molto tempo fa, in America erano considerati non attraenti. Oggi guardo le foto di quando avevo vent’anni. Allora non mi piacevo e, invece, ero proprio carina. Rimpiango tutto il tempo buttato via a essere insoddisfatta del mio aspetto».
A che punto ha sentito di avere la carriera sotto controllo?
«Non puoi mai dire di essere arrivato, ogni film, ogni ruolo è una conquista. Gli attori, al 95 per cento, sono disoccupati».
Ma lei ha anche una sua società di produzione.
«Vero. Ma solo chi è dell’ambiente capisce quanto lungo e complesso sia il procedimento per realizzare un film. In ogni caso, io non mi sono sentita nella condizione di poter dire dei no fino a quando ho iniziato a lavorare alla serie tv Le regole del delitto perfetto, nel 2014».
Dopo il film The Help e due candidature agli Oscar?
«Esatto. È successo quando ho deciso che non volevo più essere definita sulla base del mio colore, del mio aspetto fisico e della mia età. Devo ringraziare proprio il personaggio di Annalise Keating di quella serie. Prima di interpretarla avevo lasciato che registi e produttori mi identificassero con determinati ruoli: la cameriera, l’avvocato, il medico, tutti personaggi privi di una connotazione sessuale. Solo grazie ad Annalise mi sono accorta che i ruoli che avevo interpretato fino a quel momento non mi corrispondevano per niente. Quando ho finalmente capito di essere una donna, ho anche cominciato a sentirmi più in controllo della mia carriera».
Quindi, che cosa prova nei confronti di The Help? Da un lato è il film che le ha cambiato la vita, dall’altro l’ha resa popolare proprio con il ruolo di una cameriera.
«Il tempo che ho trascorso in Mississippi con quel gruppo incredibile di attrici, da Octavia Spencer a Jessica Chastain, è stata una delle esperienze più belle della mia vita. Ma avrei preferito che il film fosse maggiormente onesto, crudo nel
raccontare la vita di quelle donne. È vero anche che lavoro da 31 anni e non ricordo una volta in cui non mi sia detta: “Poteva funzionare meglio”».
Lei non ha avuto un’infanzia facile: ha persino sofferto la fame. Quanto di quella ragazzina fa ancora parte di lei?
«Possiedo solo una fotografia di me da piccola. Ho i capelli raccolti in un ciuffo, la camicia a righe e una salopette di jeans. Mi ricordo che ero molto orgogliosa perché mi avevano appena comprato questi vestiti in un grande magazzino e mi sentivo graziosa. Quella bambina viene a letto con me ogni notte e si sveglia con me ogni mattina. Fino ai miei quarant’anni ho fatto di tutto per curarne le ferite. Conosce quel modo di dire: “Non sei mai troppo vecchio per avere un’infanzia felice”? Oggi sento che è molto contenta della donna che è diventata. La vedo aprire la porta del frigorifero e prendersi quello che vuole da mangiare insieme a me,
infilarsi con me nella vasca a idromassaggio, viaggiare in tutti quei luoghi in cui sognava di andare. Penso di averla resa orgogliosa, ho realizzato la vita che sognava».
Per sua figlia, invece, che cosa sogna?
«Genesis ha nove anni. Una volta pensavo: “Vorrei che fosse brava in questo e quest’altro”, che avesse tante cose che io non ho avuto. Oggi le auguro solo di essere felice».
L’augurio più grande ma anche l’obiettivo più difficile.
«Lo so. Ma so anche che la felicità non è un punto di arrivo. Conosco tante persone che sono al massimo della carriera e non sono soddisfatte. Hanno raggiunto il loro scopo ma hanno perso di vista il significato della vita: realizzare se stessi. Altri, invece, hanno la capacità di vivere con gioia, ed è quello che auguro a mia figlia. Perché io, purtroppo, ho sprecato un sacco di tempo a tormentarmi. Anche quando la mia carriera decollava, non ero felice, grata per quello che avevo ottenuto. Pensavo sempre di non essere abbastanza brava».
Davvero era convinta di non avere talento?
«Un po’ fa parte della natura dell’artista essere sempre in lotta, farsi domande, mettere tutto in discussione. Siamo studiosi della vita. Degli altri e della nostra. Ci nutriamo di empatia, siamo dei conduttori naturali di emozioni».
Un dono e una maledizione.
«Una sorta di malattia professionale. Ma oggi sono orgogliosa, perché ho vissuto con consapevolezza. E perché, come ha detto il Dalai Lama, “non abbiamo bisogno di più persone di successo in questo mondo, ma più artisti, filantropi”».
A proposito, lei supporta diverse organizzazioni no profit.
«Mi interessano soprattutto i progetti contro la povertà in America, in particolare nell’infanzia. Per la mia campagna con Hunger Is sono tornata a Central Falls nel Rhode Island dove sono cresciuta e dove tre quarti della popolazione vive sotto il livello di povertà. Abbiamo donato denaro alle scuole e alla biblioteca. A nessuno interessano gli indigenti, per strada facciamo tutto il possibile per non vedere i senza tetto. Lo so perché sono cresciuta povera e invisibile».
Da attrice qual è il suo contributo per migliorare il mondo?
«Dobbiamo avere il coraggio mostrare la realtà, i chili di troppo, le rughe intorno gli occhi. Far vedere le donne per quello che sono, con alti e bassi: ci sono giorni in cui non ti va di uscire di casa e altri in cui ti senti una meraviglia. Le persone hanno bisogno di questi momenti di verità per sentirsi rappresentate e riconosciute. Meno sole».
Prossimamente, però, la vedremo nella parte di una donna non proprio comune: Michelle Obama.
«La serie s’intitola First Ladies e racconta le mogli dei presidenti americani nel corso della storia. Eleanor Roosevelt, Jackie Onassis e così via».
Non un ruolo semplice.
«Sarà un enorme successo o un enorme disastro. Sulla porta della camera di mia figlia abbiamo appeso un cartello con la scritta: “Se i tuoi sogni non ti fanno paura vuol dire che non sono grandi abbastanza”».
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Pagg. 54-55: abito custom made, MICHAEL KORS. Gioielli, CRIVELLI. Make-up Sergio Lopez-Rivera. Hair Jamika Wilson. Location Hotel de Russie Roma.