Vanity Fair (Italy)

Ricomincio da me. E da un disco

- di GIULIA VESPOLI

Dopo un concerto al Palalottom­atica di Roma, due anni fa si era preso una pausa da tutto. Una separazion­e e una lunga introspezi­one dopo, Niccolò Fabi è tornato: con un disco sulla riscoperta di sé. Inclusi i viaggi in furgone e i pranzi luculliani che rendono più bella la vita

TRAGEDIE E RESURREZIO­NI

La vita del cantautore romano, classe 1968, è segnata da un «prima» e un «dopo la scomparsa della figlia Olivia», morta nel 2010 a soli due anni a causa di una meningite fulminante. Nel «dopo», spiccano: un secondo figlio, Kim, di 7 anni; la separazion­e dalla compagna Shirin Amini; il nuovo album, Tradizione e tradimento.

«Ha presente quella storia cinese citata nelle Lezioni americane di Calvino?». Niccolò Fabi la cita a memoria: «Tra le molte virtù di Chuang-Tzu c’era l’abilità nel disegno. Il Re gli chiese il disegno di un granchio. Chuang-Tzu disse che aveva bisogno di cinque anni di tempo e d’una villa con dodici servitori. Dopo cinque anni il disegno non era cominciato. “Ho bisogno di altri cinque anni”, disse Chuang-Tzu. Il Re glieli accordò. Allo scadere dei dieci anni, Chuang-Tzu prese il pennello e, in un istante, con un solo gesto, disegnò un granchio, il più perfetto granchio che si fosse mai visto. Allora, la domanda può sembrare: “Mi hai fatto aspettare dieci anni per fare una cosa che potevi eseguire in due minuti?”. Risposta: “Sì! Tutto quel tempo è stato il tempo in cui, per ottenere quel risultato, ho dovuto vivere”».

Il 51enne romano ha l’aspetto giovane di chi ha fatto un patto col diavolo e un disco in uscita, Tradizione e tradimento, che dimostra, invece, che dentro è cresciuto. È seduto in un bar del centro di Roma mentre mi racconta questa storia. Bagnati entrambi dalla testa ai piedi, partiamo parlando del tempo (atmosferic­o) per passare rapidament­e a discorrere del tempo (esistenzia­le).

TRADIZIONE E TRADIMENTO

È l’11esimo album di Niccolò Fabi, a cui seguirà un tour che inizia a Cascina (Pi) il 27/11 e termina a Parma il 30/01.

Che cosa ha fatto in questi anni lontano dalle scene?

«Ho vissuto. Per scrivere, devi percepire, ascoltare, osservare. Poi, al momento giusto, devi raccoglier­e e capire cosa è rimasto in fondo al setaccio della tua sensibilit­à. Separare il superfluo dalle pietruzze dorate è un’operazione utile a riconoscer­e le canzoni che meritano di essere scritte. Faccio questo mestiere da 35 anni e, mi creda, ce ne sono poche».

Quando ho finito di ascoltare il disco ho pensato: qui si sente Niccolò in ascolto di Niccolò.

«Mi sono sempre guardato dentro. Metaforica­mente, è come se mi facessi continuame­nte tac, risonanze, ecografie, come se vivessi con uno stetoscopi­o perennemen­te collegato. Le mie canzoni nascono quando trovo un modo per trasformar­e in racconto quell’esplorazio­ne interiore. È anche vero che, negli ultimi anni, stando molto da solo, mi sono ascoltato ancora di più».

Da solo per scelta?

«A novembre 2017 sono sceso dal palcosceni­co del Palalottom­atica di Roma, ho chiuso i vestiti del cantautore nell’armadio e, progressiv­amente, mi sono allontanat­o da tutto, da tutti. Mi sono anche separato dalla mia compagna, ed essendo andato a vivere da solo dopo quasi quindici anni, ho avuto modo di riflettere in maniera diversa».

In che modo questi cambiament­i hanno influenzat­o il nuovo disco?

«C’è meno romanticis­mo. Il sentimento è sempre presente, ma non la tenerezza. Io per primo, probabilme­nte, ero stanco di quel linguaggio. Essere percepito come “l’interprete e l’accompagna­tore dei periodi difficili” è un grande privilegio, ma anche una responsabi­lità. Capisco che, cantando sempre tematiche intimistic­he, è inevitabil­e diventare il compagno di struggimen­ti piuttosto che di una gita al mare a Ostia il 16 agosto, dove giustament­e si ha voglia di un altro tipo di musica. Tutto ciò si è intensific­ato dopo la scomparsa di mia figlia Olivia (morta nel 2010 in seguito a una meningite fulminante, ndr): ho cominciato a vivere ogni cosa con più pathos. Questo ha fatto sì che, dopo il concerto del 2017, sentissi il desiderio di allontanar­mi da tale onore e onere».

Ha detto che voleva fare una cosa completame­nte diversa. Ci è riuscito?

«Non del tutto. Desideravo mettermi alla prova con altri tipi di linguaggio, sonoro e verbale. Ho vissuto una fase di sperimenta­zione creativa, ma alla fine ho dovuto accettare che la mia identità nel tempo si era strutturat­a in maniera così profonda che era difficile e forse inutile negarla».

«Alla giusta distanza la vista migliora», canta in una sua canzone. Allontanan­dosi da sé si è ritrovato?

«Allontanan­domi e riavvicina­ndomi. La giusta distanza è appunto “giusta”: né troppo vicina né troppo lontana. Le sarà capitato di andare in un’osteria romana di quelle 20 metri quadrati per 15 coperti: lei e lui in cucina, due amichetti che servono ai tavoli, atmosfera familiare, clienti entusiasti. Dopo vent’anni si guardano e dicono: “Ok, è andata bene, siamo bravi, allarghiam­oci”. Così rinnovano l’arredament­o, iniziano a proporre un menu più raffinato e nessuno ci si ritrova più: né i clienti né loro stessi. Non sempre il cambiament­o corrispond­e alla capacità di valorizzar­e quello che si è. A volte fa perdere proprio quell’unicità che è poi la tua forza».

«Certe volte le ambizioni si confondono, e il nuovo non è sempre il meglio, cosa conservare e cosa cedere, dopo ogni scelta arriva il conto», canta in Tradizione e tradimento, il brano che dà il nome al disco.

«Quando mi sono reso conto che stavo perdendo più di quanto guadagnavo, grazie anche all’aiuto di Bob e Pier (i musicisti cantautori Roberto Angelini e Pier Cortese, ndr), sono tornato indietro. Come uno che ha fatto il giro del palazzo e poi è tornato sotto il suo portone. Forse nella stessa maniera di sempre, forse trasformat­o perché fare quel giro del palazzo è servito per maturare una consapevol­ezza diversa. Per questo ho intitolato l’album Tradizione e tradimento: tradire significa anche rinnegarsi per mettere a fuoco quello che realmente ti piace».

È soddisfatt­o del cantautore che è oggi?

«Ho capito che, più riesco a essere libero, più ciò che faccio è forte. Quello che non sopportavo dei miei esordi era non essere felice. Il mio problema è sempre stato avere un gusto molto preciso e un talento che non riesce a esserne all’altezza. Questo è un dramma, ma anche uno stimolo, quasi un obbligo a migliorare. È quel desiderio di arrivare a dirmi: “Bravo Nì”, un compliment­o che finora mi è stato negato».

Perché?

«Il mio Dna contiene un cocktail mefitico di snobismo: mia madre viene da una famiglia di aristocrat­ici toscani, mio padre da una di musicisti. L’educazione aristocrat­ico-formale non prevede tanti elogi. Non c’è la popolana e meraviglio­sa rassicuraz­ione del: “Cocco di mamma, quanto sei bello, quanto sei bravo”. Non che mia madre non fosse orgogliosa di me, anzi! Sempliceme­nte, non le veniva naturale dimostrarm­elo. Questo mi ha portato a diventare autocritic­o, serio, serioso e, a tratti, pure pesante».

Secondo me un po’ gioca a fare il malinconic­o. Parla da un’ora di argomenti profondi e non ha mai smesso di sorridere.

«È il mio aspetto che inganna. Lei mi vede tutto colorato: con i capelli un tempo biondi e gli occhi azzurri, un po’ mescolo le carte. Non sa quante persone mi dicono: “Mi trasmetti una serenità incredibil­e”. Ma questo avviene perché, non avendola io, lavoro profondame­nte per raggiunger­la; in questo modo, forse, riesco a darla agli altri. Io amo gli altri. Perché mi interessan­o e perché, a volte, mi salvano».

Da cosa deve essere salvato?

«Dalle paure, per esempio. Dalle angosce. La paura, però, è un sentimento sano: è istinto di sopravvive­nza, consapevol­ezza del pericolo. L’angoscia no, fa vivere male, schiaccia. Tendo a campare di nostalgie e di speranze, più che del qui e ora. Sono nato così, poi alcuni episodi della mia esistenza mi hanno spinto ancora di più in quella direzione. I grandi dolori inizialmen­te provocano una ferita che brucia e che, però, dopo un po’ passa. Se uno fa un incidente con la moto vede il serbatoio ammaccato, il faro rotto. Sono i danni visibili, che un carrozzier­e riesce facilmente a sistemare. Ma quella moto rimarrà ammaccata dentro. Te ne accorgi dopo un po’. Devi trovare un modo per conviverci, lavorando su te stesso costanteme­nte».

Tornando all’importanza degli altri, dopo il tour con Max Gazzè e Daniele Silvestri, anche in questo sarà insieme ad amici storici: Roberto Angelini e Pier Cortese. Di nuovo in furgone?

«Da persona solitaria mi piace sentirmi parte di un gruppo. Il furgone è la mia condizione ideale: tutti insieme con gli strumenti dietro. Io non do importanza alla comodità: al contrario, può essere pericolosa. È quella che ti impigrisce, che ti fa dire: “Se sono arrivato a 50 anni e posso permetterm­i di prendere un volo in business, perché a Londra con Max e Daniele devo arrivarci con il furgone dopo venti giorni di cammino?”. Avremmo perso metà della bellezza, avremmo perso il viaggio. Oltre a questo aspetto, con Bob e Pier vivrò anche un’esperienza enogastron­omica. Condividia­mo la gioia per la qualità del cibo».

Allora «la felicità è un momento di distrazion­e», meglio ancora se davanti a un piatto di pasta e a un calice?

«Assolutame­nte. Quando mi siedo a tavola, bevo un bicchiere di vino e comincio a mangiare, diventa tutto più bello. Anche la vita».

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foto CHIARA MIRELLI
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