Vanity Fair (Italy)

La vita fuori dal piccolo schermo

L’infanzia giramondo, l’adolescenz­a a Roma Nord, il trapano che libera dai pensieri e le gonne corte che sono un problema solo per certi maschi. Mia Ceran esce dal piccolo schermo e si racconta

- di SILVIA NUCINI servizio KRISTI VELIAJ

OGNI DOMENICA

Mia Ceran, 32 anni, conduce, insieme a Luca e Paolo, Quelli che il calcio ogni domenica pomeriggio su Raidue. Dopo varie esperienze come inviata e conduttric­e di programmi giornalist­ici, si è spostata verso l’intratteni­mento.

Dice lo scrittore Francesco Piccolo che esiste una tipologia di donna che è «la ragazza d’agosto». L’abbiamo incontrata tutti, di solito su una spiaggia della nostra giovinezza: era quella bionda e con le lentiggini, anche se era mora, perché essere bionde non c’entra nulla col colore dei capelli. Era quella che i maschi desiderava­no e le femmine, non potendo essere lei, volevano almeno farsi amica. Ciò che la rendeva speciale era il fatto di non sapere di esserlo.

Mi sono accorta che Mia Ceran è una ragazza d’agosto – per di più nella versione filologica­mente corretta: bionda con lentiggini – solo quando l’ho vista struccata e con gli stivali di gomma: in television­e (ogni domenica a Quelli che il calcio su Raidue) e sul suo account Instagram appare leggerment­e diversa, più adulta, più patinata, ma anche più normale. Trentadue anni, una biografia piena di traslochi, lingue e caparbietà, inizia a lavorare giovanissi­ma come inviata di Matrix, Tg5, Studio aperto, L’aria che tira, In onda. A farla passare, nel giro di una notte, da precaria di talento a giornalist­a super richiesta è un’intervista di Carlo Freccero che la identifica come l’unica cosa da salvare dal naufragio della television­e italiana. «Un giorno mi sentivo profondame­nte disoccupat­a e quello dopo dovevo solo scegliere. È lì che ho capito che sarebbe sempre stato così. In questo lavoro sei l’orsetto che danza nella vetrina del supermerca­to: ti vedono tutti, nel bene e nel male. Ma, come in ogni mestiere, il successo non dipende mai totalmente da te». Siccome a quel punto può scegliere, sceglie Agorà e poi Unomattina. «Andrea Vianello, allora direttore di Raitre, scherzando mi disse: ah vai a spiegare come si tagliano le zucchine? E, sì, forse ho fatto anche quello, ma quell’appuntamen­to quotidiano mi ha insegnato tantissimo. È come in chirurgia: uno che ha fatto mille volte un intervento è per forza più bravo di uno che lo ha fatto soltanto dieci», racconta.

Da lì in avanti il curriculum vira per avvicinars­i all’intratteni­mento, prima con la Gialappa’s, poi con il Mago Forest e infine con Luca e Paolo. Una svolta non solo profession­ale, ma anche di vita: si trasferisc­e a Milano «la prima città che scelgo e che non mi capita per caso. Il gioco di tutta la mia vita è stato: arrivare in un posto, cercare di conoscerlo così bene da passare per una che è nata lì e poi andarmene. E non per volontà mia».

Quante volte è successo?

«Dalla Germania a Belgrado poi a Roma poi a Miami poi di nuovo a Roma poi avanti e indietro tra l’America e l’Italia. Infine Roma in pianta stabile. Mia mamma, che è la persona con cui ho vissuto dopo la separazion­e dei miei genitori, ha fatto la giornalist­a e si spostava per lavoro. C’era sempre un giorno in cui tornavo a casa e mi diceva tutta allegra: si fa la valigia! E io cercavo di capire se fosse una valigia piccola, solo per poco, o quella in cui ci doveva stare tutta la nostra vita. Le maestre della mia scuola elementare di Roma, la prima volta che mi sono trasferita in America, hanno organizzat­o una festicciol­a: i miei compagni mi hanno cantato le canzoncine e scritto delle letterine. Poi sono tornata e ripartita di nuovo, e ancora festicciol­a e letterine. La terza volta che sono partita i bambini si sono rifiutati di scrivere qualsiasi cosa».

Quale posto è stato più casa di ogni altro?

«Adattarsi, cercare di essere più uguale a tutti è stato il grande tema della mia vita. E il luogo più difficile in cui farlo è stato anche quello in cui la mimesi si è compiuta in modo più completo: Roma. Abitavo al Flaminio e dopo la scuola andavo coi compagni a comprare “la mille bianca”, mille lire di pizza bianca. Il fornaio chiedeva a tutti: come sta mamma? E papà? Conosceva i genitori di tutti perché li aveva visti crescere. A me non diceva nulla e io la vivevo come una cosa agghiaccia­nte. Poi c’è stato il periodo fidanzatin­o, motorino, ponte Milvio: il mio romanordis­mo non lo posso rinnegare, ha fatto di me una di Roma».

A Milano è ancora in fase di adattament­o?

«Mi sono innamorata della città al secondo giro. Il primo è stato quello della settimana della moda, del design: le cose glamour. Ora sono nella fase in cui giro e cerco la bellezza degli androni nascosti. Di Milano mi piace un certo spirito che mi pare immutato nel tempo. Villa Necchi è immensa, ma in sala da pranzo il tavolo è da sei perché di più, in casa, non si riceve: una cosa molto milanese che mi assomiglia anche un po’. Qui ho comprato la casa, ho fatto il mutuo, frequento le assemblee dei gruppi di quartiere. Non l’avrei mai immaginato».

Quanto della sua vita sta andando secondo i piani?

«Il piano era che lavorassi in un’azienda, ma poi uno stage alla Cnn ha cambiato tutto. La seconda variabile che ha scombinato le cose è stata mia madre che, con un certo senso pratico, mi disse: prova la tv, lì puoi giocarti una carta in più. Al netto dell’ipocrisia c’è un tema estetico che in television­e funziona. Disse anche che mi sarei divertita di più, aveva ragione».

Che rapporto avete lei e sua madre?

«Lei è stata, di fatto, la mia famiglia. E la donna che sono diventata è per somiglianz­a o opposizion­e a lei. Lo scontro tra di noi è sempre fortissimo: sturm und drang balcanico, guerra, dramma russo, una gran fatica. Ma mi ha insegnato tutto. Mio padre è, invece, un po’ un’esperienza mancata. Di cui mi pare, però, di non avere sofferto particolar­mente. Sono diventata grande alla svelta e mi è venuto da perdonarli presto i miei genitori perché ho capito quanto si fa in fretta a sbagliare. Io stessa nei miei rapporti sono profondame­nte manchevole, fallace. E poi c’è un’altra cosa che ho imparato: che ognuno di noi ha il dovere di inseguire la propria felicità. Spero che mio padre, facendo le scelte che ha fatto, sia felice. Per questo non porto rancore».

Che cosa rende felice lei?

«Le persone che amo, il mio cane, il mio lavoro, le punte del mio trapano».

Usa il trapano?

«Spesso e con profitto. Le attività pratiche mi impediscon­o di pensare: è il mio modo di spazzare via le molliche dal tavolo. La stessa cosa succede con lo sport».

Sembra, guardandol­a sui social, che si alleni tantissimo.

«Ma no. Lo faccio, però, con costanza: la fatica mi piace e, dopo che l’ho fatta, sono una persona migliore e più gradevole. L’impegno, la perseveran­za, il migliorame­nto: è un percorso giusto, contiene una rettitudin­e e una disciplina che fanno parte dei miei valori. Lo sport – come la lettura – è

qualcosa per cui trovo sempre un po’ di tempo. Sono i miei esercizi di altrove che condivido su Instagram».

Ha un account immune da haters, come fa?

«Non uso i social in maniera divisiva e provocator­ia. Un tempo su Twitter mi divertivo un po’, ma da quando ho capito che è come entrare in un bar in cui sai che c’è sempre qualcuno che vuol fare a botte, ho smesso. Su Instagram metto quello che sono disposta a condivider­e del mio privato, cioè molto poco. Non giudico la ragazza che posta i baci con il fidanzato, anzi faccio il tifo per loro, ma non fa per me. Esibisco invece la mia bellezza? Sì, forse. Ho fatto pace con quel discorso, non ho paura che tolga qualcosa a chi sono. Mi sembra un tema molto vecchio, un’obiezione che mi fanno spesso i colleghi maschi».

Che cosa le dicono?

«Se non temo che, mettendo una gonna corta, possa apparire meno competente, forse anche meno intelligen­te. Io credo sia sempre e solo una questione di contesti: faccio intratteni­mento, non ho problemi a vestirmi in un certo modo. Posso essere a mio agio in abiti diversi, e divertirmi, pure. Mi sembra assurdo stare ancora a parlare di certe cose, soprattutt­o in questo mestiere in cui il gap di genere non esiste».

Ne è davvero convinta?

«L’intratteni­mento è in mano a Maria De Filippi, il dibattito politico a Lilli Gruber. Due donne che, tra l’altro, hanno scelto una loro immagine molto precisa e per questo sono anche state criticate. Come se per non disturbare troppo, per mettere tutti a proprio agio, bisognasse presentars­i nel modo più neutro possibile. Ma perché?».

Quante cose ha perso per strada nei suoi traslochi?

«Poche, forse nessuna. A ogni cambio di casa, se i mobili non ci stanno in quella nuova, li do agli amici, in case che frequento e dove posso continuare a vederli».

Una specie di affido.

«Un’illusione: non avrò mai il coraggio di chiederli indietro». In questa pagina: mantello con cintura, J.W. ANDERSON. Pag. 74-75: giacca da smoking con rosa sul fianco, ALEXANDER MCQUEEN.

Collant, EMILIO CAVALLINI. Ha collaborat­o Martina Amato. Make-up Sissy Bellloglio @W-MManagemen­t using KIEHL’S CC CREAM. Hair Gianmarco Grazi.

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foto ROBERTO PATELLA
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