Vi porto in una Dark Room
Nelle stanze buie in cui ogni peccato è concesso, c’è stata davvero. Q.ui Senhit lo ammette con franchezza. Ma, per capire che cosa ha provato davvero, bisogna ascoltare il suo ultimo singolo, in cui dice «voglio tutto»
FRESCHEZZA POP
Classe 1979, bolognese di origini eritree, la star dei musical Senhit (all’anagrafe, Senhit Zadik Zadik) ha due singoli appena usciti: Dark Room e Un bel niente.
Quarant’anni appena compiuti, una freschezza pop unita a una sicurezza granitica di donna: dietro alle lenti a contatto blu di Senhit passano molteplici segreti. Di vite ne ha vissute tante: nata a Bologna in una famiglia di immigrati eritrei, dopo aver lasciato l’università contro il volere di un padre adorato «ma ansioso e protettivo», è stata protagonista di musical internazionali: da The Lion King fino a Rent, prodotto dalla ex moglie di Luciano Pavarotti Nicoletta Mantovani che, per scaramanzia, di fronte alle sue scelte di look, l’aveva obbligata a spogliarsi sul palco: «Mi ero presentata all’audizione con una maglia viola e le si sono drizzati i capelli. Con nonchalance me la sono sfilata, e ho avuto la parte». Quindi il ritorno in Italia grazie a un contratto con Panini, editore di figurine e fumetti che ha debuttato nella musica opzionandola per 15 anni. Tre album, un ep, una serie di singoli e ora due nuove uscite: Un bel niente e Dark Room, una sorta di Pensiero stupendo in chiave fetish con il videoclip diretto da Luca Tommassini. «Dammi tutto», canta Senhit, «e dammelo subito».
Si definisce una «control freak». Come si muove, in una dark room, una maniaca del controllo?
«Intanto è divertente osservare la curiosità che la canzone ha suscitato: tutti sono bramosi di sapere se in una dark room ci sia stata davvero, oppure no».
Ovviamente negherà.
«Invece lo ammetto senza vergogna. Ci sono entrata, come tanti del resto».
Ha avuto un senso di rigetto o di eccitazione?
«Di grande curiosità. È successo in una discoteca di Rimini, il Classic: si arrivava in questa stanza buia dove succedeva di tutto, e mi piaceva. Mi è capitato anche a Londra, durante un paio di feste bizzarre».
Fino a che punto si è spinta?
«Non troppo in là. Diciamo che ho ascoltato, toccato, annusato».
Luca Tommassini la conosceva?
«No. Il mio manager l’ha contattato e lui mi ha invitata nella sua casa di Roma, un po’ museo un po’ bazar, piena di arte e frammenti di coreografie prese dai suoi spettacoli. Pensavo che mi avrebbe spinta ai limiti dell’erotic porn e invece mi ha resa modaiola: capelli stirati, frangetta, seno tirato ben in su. Un’impronta forte».
Vive da sola?
«Sì».
Del resto, come canta nel brano, «l’amore è una dark room». Non certo un’immagine ottimistica in fatto di relazioni.
«E perché mai? Io ci credo, anche se in vita mia mi sono innamorata poco, tre volte a dir tanto. In questo momento, per esempio, c’è una persona. Non convivo. Ma sono felice».
Cosa si è presa, senza chiedere permesso, in vita sua?
«Questo mestiere, prima di tutto».
Com’è iniziata la sua gavetta?
«Con mia madre che lesse un’inserzione: cercavano una cantante per uno spettacolo con Massimo Ranieri, Il grande campione, e a diciotto anni mi presentai. Interpretavo la segretaria di Edith Piaf e avevo anche alcune parti da solista. Un’avventura meravigliosa».
Ranieri la bacchettava?
«Durante le prove era “incazzoso”, severo e sanguigno, esattamente come il regista Patroni Griffi. Io, al contrario, ero strafottente: pensavo di essere già Barbra Streisand e non davo retta a nessuno. Una volta gli ho risposto male e mi ha rifilato una cinquina, metaforica naturalmente, ma che ricordo ancora».
Poi è arrivata l’Europa.
«Dopo la chiusura dello show feci provini su provini, ma non mi voleva più nessuno, finché ad Amburgo è arrivata la grande occasione: cercavano Nala, la principessa di The Lion King scritto da Elton John, e venni scritturata per due anni, tra i più belli della mia vita: libera, spensierata, lontana dalla famiglia».
Serate tragiche ce ne sono state?
«Al debutto, 2 dicembre 2002: appena entrata in scena feci un ruzzolone giù dalle scale, tanto che sentii distintamente il pubblico che faceva “ooooohhh”. Sgattaiolai fuori scena con il microfono ancora aperto urlando ogni parolaccia in bolognese che conoscevo, e spero ancora che gli applausi del pubblico ne abbiano coperte almeno un po’. Da lì è stato tutto in ascesa: Hair, Fame, fino alla carriera da solista grazie a Panini».
Altra storia incredibile.
«Una cara amica aveva una zia che ricopriva il ruolo di presidente della società: cantai New York, New York alla sua festa di compleanno e decisero di investire su di me. Del resto avevamo storie che si incrociavano: volevano lanciarsi nella musica e io avevo un profilo internazionale. Producevano le figurine dei calciatori e io avevo giocato a pallone in una squadra femminile. Dopo tutti questi anni, siamo ancora qui».
Intanto, la sua famiglia si disgregava.
«Disgregarsi non direi. Dopo anni di sacrifici, mio padre ha deciso di tornare in Eritrea: ha lasciato la nostra latteria di Bologna a mia mamma, ha sistemato me e i miei fratelli, e ora vive a Cheren con il suo orto, le capre e le mucche, senza internet né telefoni».
Lo odia per questo?
«Lo andiamo a trovare due volte all’anno e siamo ancora una famiglia. Lui voleva solo riavere indietro le sue radici. E sinceramente, non mi sento di biasimarlo».