La caduta del Muro, 30 anni dopo
A trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino lo scrittore Peter Schneider ricorda quel momento in cui «l’impensabile diventò possibile»
Alle 21.20 del 9 novembre 1989, la barriera del varco di Bornholmer Strasse si alza. Ad attraversare il muro – 155 km di lunghezza, 3 metri e 60 di altezza, 12 mila uomini a controllarlo – circa 20 mila persone, incredule. «Quello che fino a poco prima era impensabile, diventa possibile. E in modo del tutto inedito: le rivoluzioni non si annunciano in conferenza stampa», racconta Peter Schneider dalla sua casa di Berlino. Lo scrittore tedesco (il suo ultimo libro è Gli amori di mia madre, L’Orma editore), originario di Lubecca, compirà 80 anni il prossimo aprile. Una vita che attraversa i momenti chiave della storia recente del suo Paese, dal nazismo – con cui aveva dovuto fare i conti il padre, compositore – al muro di Berlino, costruito nell’estate del 1961, un anno prima che Peter arrivasse in città. E poi la contestazione studentesca (Schneider è stato uno dei leader del ’68), il crollo del muro, la riunificazione, e ora, come se fosse tornato al via, l’avanzata dell’estrema destra nei lander orientali. Il suo telefono, nelle ultime settimane, non smette di squillare: «In tanti mi chiedono un ricordo di quel 9 novembre, ma io ero in America, in New Hampshire, a insegnare. La notizia mi arrivò alle tre del pomeriggio. Non potevo crederci. C’era stata una conferenza stampa in cui il segretario del politburo Günter Schabowski, che scorreva un noioso resoconto, al punto quarto lesse che si poteva attraversare il confine, in tutti i varchi, senza permessi.
Un giornalista italiano chiese: ma da quando? Il segretario cercò tra i fogli, quindi disse: da subito immagino». Tutta Berlino est si riversò sul muro, Schabowski fu espulso dal partito.
Quando tornò a casa?
«Un mese dopo il crollo. In poche settimane era già tutto diverso, quasi come se il muro non ci fosse mai stato. Solo anni dopo ho capito che di quel muro non ci saremmo mai davvero liberati, era nella nostra testa».
Si riferisce alle differenze tra Est e Ovest?
«Mi misi a raccogliere storie sul tema “dov’eri quella notte?”. Subito notai che mentre per i tedeschi dell’Est il muro era tutto, un pensiero fisso, e il desiderio che cadesse era fondamentale, per quelli dell’Ovest era un’abitudine, ci si conviveva».
Alcuni ricordano la gente che piangeva al supermercato, davanti ai frigo ingombri di prodotti. Li ricorda anche lei?
«C’erano due tipi di lacrime. Quelle dei cittadini dell’Est che si rendevano conto che il loro governo, che sosteneva di essere il migliore del mondo, aveva sempre mentito. Ricordo soldati dell’Est disperati, quando fu chiaro che le caserme dell’Ovest chiudevano il venerdì alle due del pomeriggio, senza alcun obbligo di guardare il confine… E c’erano le lacrime degli intellettuali della Ddr, che vedevano sgretolarsi l’illusione di vivere in una Germania antifascista e capivano di essere stati solo sotto un’altra dittatura».
Lei arrivò a Berlino nel 1962, a muro appena costruito.
«Venivo dal Sud, da Friburgo. Ricordo benissimo il freddo, l’arroganza della città, lo shock culturale. Avevo voluto iscrivermi all’Università lì per evitare il servizio militare, raggiungere una mia amica, e anche perché mi affascinava la grande città. Il muro era già su: solo dopo un paio d’anni iniziò un regime di visti per cui si poteva andare a Berlino est. Bisognava chiederli due o tre giorni prima, e si pagavano dieci marchi».
Ha conosciuto qualcuno che è morto nell’attraversarlo?
«Non personalmente, né mi è capitato di dover aiutare qualcuno a passarlo, ma lo avrei fatto».
In quanto intellettuale, era spiato dalla polizia segreta della Germania est, la Stasi?
«Come tutti, e anche di più, perché conoscevo praticamente solo dissidenti della Ddr. Eravamo sicuri di essere “osservati”, oltre agli agenti ufficiali, circa centomila persone, c’erano almeno duecentomila geheimer informant, gli informatori. Tra noi scherzavamo in modo un po’ blasfemo, citando un passo del Vangelo di Matteo, dove Gesù dice: “Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”. Ecco: appena ci si trovava a Berlino Est c’era sempre una spia».
Dopo che gli archivi della Stasi furono resi pubblici, nel 1992, lei è andato a controllare se c’era un suo dossier?
«Sì, c’erano solo due o tre fogli su cui c’era scritto che il rapporto su di me doveva essere distrutto. Non ho quindi potuto mai capire chi mi avesse spiato, ma ho scoperto casualmente
Mentre per i tedeschi dell’Est il muro era tutto, e il desiderio che cadesse era fondamentale, per quelli dell’Ovest era un’abitudine
che la madre di un amico che venne a farci visita, solo una volta, per due giorni – era una pensionata dell’Est, dopo i 65 anni si poteva attraversare il confine – fece su di noi un rapporto assurdo. E anche suo figlio, quell’amico, era una spia».
Lei è nato sotto il nazismo: che cosa pensa del fatto che nell’ex Germania dell’est il voto delle estreme destre sia salito quasi al 25 per cento?
«Non è solo una questione di disparità economica tra Est e Ovest. È vero che nei villaggi della Turingia, ultimo caso in cui l’estrema destra dellA’ fd è salita al 24%, mancano le farmacie, i dottori, i bus, la rete Internet. Ed è vero che oggi solo 12 milioni di tedeschi, su 80, vivono nei lander dell’est. Ma quello che nessuno ammette è che l’estrema destra ha radici più lontane, che precedono la delusione del socialismo e del processo di riunificazione. Molti giovani della Ddr erano attratti dal mito di Hitler perché era un tabù, la cosa più proibita da fare, non essendoci nessuna altra forma di opposizione al comunismo».
Come si fa a raccontare a un millennial, post ideologico, che cosa è la libertà e che cosa è un muro?
«Sono un nonno. I miei figli e nipoti non mi fanno tante domande sul passato, ma io del resto non devo spiegare nulla: i giovani sono la nostra speranza infinita – basta vedere quello che hanno fatto ribellandosi sul clima. È nella natura umana: se c’è un muro, ci sarà qualcuno che lo salterà».