ADAM DRIVER Nelle sale con due film
Della sua vita privata si sa poco o nulla. Del suo lavoro, un po’ di più: sul set, Adam Driver ha imparato il valore del fallimento (e quello del matrimonio)
«Sono figlio di genitori separati, ero bambino quando i miei si sono lasciati. Può servire parecchio tempo per arrivare a capire che tuo padre e tua madre stanno facendo del loro meglio anche se, inevitabilmente, stanno fallendo. Quando si arriva in tribunale, le relazioni vengono sezionate come su un tavolo operatorio, descritte in termini burocratici, molto lontani dalla vita vera. Diventa difficile per tutti tenere a mente che spesso quelle due persone stanno cercando di fare il possibile per il bene dei figli ma che, per quanto si sforzino, non possono evitare di compiere errori».
Adam Driver apre un raro spiraglio sul suo privato. Per dare un’idea, il suo livello di riservatezza è tale che da tempo si vocifera che con la moglie, l’attrice Joanne Tucker, abbia un figlio di circa due anni e mezzo del quale non ha mai rivelato pubblicamente l’esistenza. Tra i pochi che invece sanno molto di lui e della sua famiglia c’è il suo amico Noah
Baumbach, che lo ha diretto per la quarta volta nel film Storia di un matrimonio, su Netflix dal 6 dicembre.
La storia di un divorzio, tra Nicole, interpretata da Scarlett Johansson e Charlie, Driver, appunto, che si contendono il loro bambino tra New York e Los Angeles.
Baumbach si è ispirato alla sua vita. Anche lui è figlio di divorziati – alla separazione dei genitori dedicò il film Il calamaro e la balena, candidato all’Oscar come miglior sceneggiatura originale nel 2006 – e anche lui ha un matrimonio alle spalle, con l’attrice Jennifer Jason Leigh, e un figlio, Rohmer, di 9 anni. Ma in Storia di un matrimonio, che racconta la relazione a ritroso, partendo dalla rottura, c’è molto anche di Adam Driver. «Con Noah ci vediamo costantemente. Di solito si tratta di lunghe chiacchiere a cena. Lui prende appunti e, ogni volta, finisce per essere: “Okay, su quale storia potremmo lavorare insieme?”. Con Noah è come prendere parte a una conversazione infinita,
Sul lavoro conosci davvero le persone, le vedi al massimo della loro vulnerabilità: sotto stress, il carattere di ciascuno viene fuori
che comincia a tavola, continua sul set e non s’interrompe neppure dopo la fine delle riprese».
Com’è interpretare una storia che si è contribuito a creare?
«Meraviglioso. Di solito, quando giro un film, succede che per una o due settimane mi sembra di non capire fino in fondo il mio personaggio. Poi, un po’ alla volta, lo faccio mio, magari cambio piccole cose qui e là, lo adatto a me. Questa volta non è stato necessario, non ho dovuto “fare i compiti a casa”».
Un’esperienza del tutto diversa da Star Wars?
«Quando lavori con due registi come Rian Johnson e J. J. Abrams (il primo ha diretto Star Wars: Gli ultimi Jedi del 2017, il secondo il nuovo capitolo della saga nei cinema il 18 dicembre, ndr) le conversazioni che hai sul personaggio non sono molto diverse. Ovviamente, i tempi, l’organizzazione sul set di un blockbuster non hanno niente a che vedere con quelli di un film indipendente. Quando sei circondato da cinquanta persone, dal tecnico che lavora agli effetti speciali al tipo che passa l’aspirapolvere, hai bisogno di più tempo per concentrarti. I ritmi sono molto più lenti».
Storia di un matrimonio è un film molto personale, eppure lei non parla mai della sua vita al di fuori del lavoro.
«Per me vita e lavoro sono intercambiabili. Tutte le mie relazioni hanno a che fare con la mia professione, a cominciare dal mio matrimonio. È sul lavoro che conosci davvero le persone. Le vedi al massimo della loro vulnerabilità, sotto stress il carattere di ciascuno viene fuori meglio che in altre situazioni. Per esempio, capisci chi è disposto a darti una mano e chi no. Con Scarlett siamo diventati amici proprio perché abbiamo collaborato a questo film».
Farne parte ha cambiato in qualche modo il suo punto di vista sulle relazioni?
«Di certo ho capito che non voglio un divorzio nella mia vita (ride). A parte le battute, credo che racconti qualcosa in cui credevo già: l’amore non finisce, si trasforma. Solo che, in questa storia, i tempi sono sfasati: Nicole raggiunge prima la consapevolezza di dover troncare la loro relazione, mentre il mio personaggio, Charlie, non è pronto, sa che il rapporto non funziona più come prima ma gli sta bene lasciare che le cose seguano il loro corso. Si conoscono così bene che stare insieme sembra una cosa naturale. Il divorzio è un cambio improvviso, emotivamente violento».
Prima di fare l’attore, è stato nei marines. Si sente ancora un po’ soldato?
«Dal punto di vista del lavoro, il mio approccio è lo stesso: mi piace il gioco di squadra. Si deve lavorare tutti insieme e l’obiettivo da raggiungere è sempre al di sopra della realizzazione dei singoli».
Che cosa significa in concreto?
«Cerco di avere un atteggiamento collaborativo, di non imporre le mie idee. Se arrivi sul set sicuro di sapere tutto, perdi l’occasione di ascoltare le altre opinioni. E scoprire che, magari, sono migliori delle tue. L’ho imparato molto presto anche grazie a registi e a colleghi che ho sempre ammirato e che praticano questa filosofia del non avere la risposta giusta su niente. Uno come Martin Scorsese (lo ha diretto in Silence, del 2016, ndr) si aspetta che tu condivida con lui le tue idee, non vuole un burattino che esegue gli ordini senza metterci niente di suo. Vedere persone come lui combattere con i propri dubbi, dopo tutto quello che ha fatto nella sua carriera, ti conforta e ti terrorizza al tempo stesso. Non s’impara mai. Devi rischiare di sbagliare continuamente».
È il suo atteggiamento anche nella vita?
«Certo. Per quale ragione dovrei chiudermi a cose che non conosco? Dire: “Non m’interessa”, solo perché non capisco immediatamente. La diversità è il bello della vita. Non dico di essere sempre bravo a farlo. Fa parte della natura umana far riferimento a giudizi e idee consolidate, è un meccanismo di sopravvivenza. Però ci provo. Ho sperimentato in molte occasioni i benefici di avere torto».
È vero che all’inizio della sua carriera si era autoimposto di andare alle audizioni odiando chi si sarebbe trovato davanti perché nel caso non le avessero dato la parte ci avrebbe sofferto di meno?
«Non parlerei di odio vero e proprio. Il punto è che quando fai un provino, il potere sta quasi tutto dall’altra parte. Tutti gli attori ricevono continuamente rifiuti. La mia tecnica consisteva nell’auto-convincermi che non ero lì per ottenere una parte, ero lì per recitare e basta. Se non mi prendevano, avevo comunque avuto una chance per presentare la mia performance».
Che cos’è per lei il successo?
«Sentirsi a proprio agio con il fallimento. Essere un attore vuol dire vivere perennemente in uno stato di disagio e insoddisfazione. L’obiettivo è riuscire a trovarsi bene in una condizione del genere. Ce la farò mai? Non credo».
Almeno non deve più fare audizioni. Contento?
(ride) «Non immagina quanto». ➺ Tempo di lettura: 7 minuti
Pag. 94: giacca, BURBERRY. T-shirt e jeans, GIVENCHY. Stivali, GRENSON. Pag. 95: maglione, RALPH LAUREN. Jeans, GIVENCHY. Sneakers, ADIDAS. Pag. 96: T-shirt, FRAME. Jeans, GIVENCHY. Stivali, GRENSON. Grooming Amy Komorowski.