ESHKOL NEVO Quito
Sono passati più di vent’anni. Ma il ricordo dei primi momenti a Quito resta nitido, particolareggiato.
Il taxi dall’aeroporto ci ha depositati all’ostello, alle sei di mattina. Yishai aveva insistito perché portassimo la Lonely Planet in ebraico, secondo lui non parlavamo abbastanza bene l’inglese. Sennonché, la versione in ebraico non era aggiornata. E l’ostello, un tempo popolare, era deserto. Un ostello fantasma. Una donna tutta rughe ci ha mostrato la nostra camera. Ci siamo accertati, con il nostro spagnolo da manuale di conversazione, che nella doccia ci fosse l’acqua calda. Sí, hay agua caliente, ha risposto.
Abbiamo posato lo zaino. Yishai si è infilato in doccia. Dopo un minuto ha strillato che l’acqua era gelata. Abbiamo chiamato la donna e aperto l’acqua per mostrare, furiosi, che non era calda. È scoppiata a ridere. E ha spiegato che lì C non significava cold, ma caliente. Poi ha girato per noi la manopola giusta. Gracie, abbiamo detto. Gracias, ci ha corretti.
Dopo la doccia, siamo usciti a zonzo per la città vecchia. Scalcinati palazzi coloniali. Piazze. Vicoli acciottolati. Bancarelle multicolori. Fin dal primo vicolo ho provato una sensazione inquietante. Ma ho aspettato qualche ora prima di condividerla con Yishai.
Stavamo mangiando la prima colazione del nostro viaggio. Huevos fritos con frijoles. Dietro di noi, le Ande.
Sai, gli ho raccontato, ho la sensazione di essere già stato qui. Una specie di fastidioso déjà vu. Non è un déjà vu, fratello, è il jet lag, ha proclamato. Si sbagliava.
La sensazione ha continuato ad accompagnarmi per tutti i giorni successivi. C’era qualcosa di noto, a Quito. Di più. Sentivo di appartenere a quella città.
A ogni angolo c’era un poliziotto di guardia, e la Lonely Planet aggiornata, in inglese, che avevamo rimediato da una turista olandese, spiegava che la città vecchia dove abitavamo era diventata pericolosa, da qualche anno.
Yishai ha proposto di trasferirci in un altro ostello. Non ce n’è bisogno, l’ho tranquillizzato.
In casa mia, non mi può capitare niente di male. In casa tua, Yishai ha sollevato un sopracciglio, parli come se fossi già strafatto. Prima ancora di arrivare in Bolivia.
Nel giro di una settimana me la cavavo a meraviglia in spagnolo.
Come se la lingua fosse sempre stata lì, dentro di me, pronta per l’attivazione.
A una festa di gente del posto a cui ci hanno invitati la seconda settimana, ho ballato la salsa.
Come se i passi fossero sempre stati lì, nelle mie gambe. Yishai mi guardava, stupito.
Sai cosa ti dico, ha sparato mentre tornavamo all’ostello. In effetti potresti davvero avere radici latine di cui non sai niente. Chiedi a tua mamma.
Ricordo dove mi trovavo durante quella telefonata. Seconda cabina da destra della sfilza di cabine telefoniche pubbliche Emetel. All’epoca non esistevano i cellulari. Inserivo una moneta via l’altra.
Ricordo che speravo, speravo intensamente, che mia madre rispondesse che sì, la bisnonna di mia nonna era sposata con un vecchio inca.
L’anima anela a risolvere gli enigmi, a trovare spiegazioni.
Ma la mamma ha detto che no. Per lo meno a quanto ne sapeva lei, da entrambe le parti, per diverse generazioni, tutti nella nostra famiglia erano contadini polacchi. Al massimo potevano aver ballato la polka, non la salsa.
*
Dopo quella visita a Quito, sono stato altre nove volte in Sudamerica. Ogni volta ho la sensazione di tornare a casa. Eppure non ho mai trovato spiegazioni. Solo perplessità. Possibile che ognuno di noi abbia, oltre alla sua patria, un secondo posto a cui può sentire di appartenere?
Cosa sarebbe successo se Yishai e io dopo il servizio militare avessimo deciso di partire per l’India, invece che per il Sudamerica? In fondo è stata una scelta abbastanza casuale.
Possibile che una persona possa trascorrere una vita intera senza scoprire la sua seconda casa? Senza sapere dove quella casa si trovi?