Vanity Fair (Italy)

PROTESTE Le manifestaz­ioni a Hong Kong

Il voto conferma che l’ex colonia britannica chiede la democrazia, ma le riforme restano utopia. Perché tutto si decide a Pechino

- Di FRANCESCO BISOZZI

Gli abitanti di Hong Kong non hanno voglia di diventare al cento per cento cinesi e lo dimostrano i risultati alle elezioni del 24 novembre, diventate una sorta di referendum sull’esecutivo della città-stato. A Hong Kong si è votato per rinnovare i consigli distrettua­li, che hanno responsabi­lità locali e in pratica sono come i nostri municipi, dunque l’importanza dell’ultima tornata elettorale è stata soprattutt­o simbolica, ma la vittoria dei pro-democratic­i in 17 distretti su 18 è un chiaro segnale per Pechino e per la governatri­ce Carrie Lam. L’assenza dalle liste dei candidati di Joshua Wong, tra i più noti attivisti pro-democrazia, squalifica­to da Pechino, non ha scalfito l’entusiasmo dei votanti. Il campo pan-democratic­o ha comunque potuto schierare l’ex poliziotta Cathy Yau, che ha appeso l’uniforme al chiodo perché in contrasto con i metodi utilizzati dalle forze dell’ordine per reprimere le proteste anti-cinesi.

La città-Stato fa parte della Cina dal 1997 con lo status giuridico noto come «Un Paese, due sistemi» che le garantisce autonomia fino al 2047, quando dovrebbe concluders­i il periodo di passaggio: il finale di questa storia a questo punto appare però tutt’altro che scontato.

Le proteste che paralizzan­o la metropoli da giugno sono state innescate da una proposta di legge sulle estradizio­ni in Cina, poi ritirata, ma adesso i manifestan­ti chiedono anche che il suffragio universale venga esteso a tutti i livelli. Nell’ex colonia britannica infatti i consiglier­i distrettua­li vengono eletti direttamen­te dal popolo, mentre solo una parte dei membri del Parlamento, che verrà rinnovato a settembre, è scelta dai cittadini. Uno speciale comitato elettorale seleziona infine il capo dell’esecutivo. Il mandato della governatri­ce Carrie Lam scadrà però solo nel 2022.

Non è la prima volta che nell’isola si manifesta per colmare il deficit di democrazia, cinque anni fa ci fu la rivoluzion­e degli ombrelli, ma quella in corso è di sicuro la crisi più severa dal 1997 a oggi. «Tuttavia, al di là del fiume Sham Chun, che separa la regione dal resto del Paese e dove è prevista l’elezione diretta delle sole assemblee popolari locali, la rivolta non ha smosso le coscienze non solo per via della macchina propagandi­stica di Pechino, ma anche perché i manifestan­ti si battono per una Hong Kong più autonoma e non per assicurare maggiori diritti all’intera popolazion­e», ci spiega il giornalist­a Simone Pieranni, fondatore del blog China Files e residente a Pechino.

A Hong Kong i manifestan­ti, oltre al suffragio universale, chiedono al governo l’amnistia per gli arrestati (circa 4 mila) e una commission­e indipenden­te di indagine sull’operato della polizia. «Suffragio universale e amnistia sono due obiettivi irraggiung­ibili, ma è possibile trovare un accordo per avviare un’inchiesta sulle forze dell’ordine. Sarebbe già un passo avanti», conclude Pieranni.

A differenza di quanto accaduto 30 anni fa in occasione della protesta di piazza Tienanmen, questa volta Pechino difficilme­nte sguinzagli­erà i carri armati, anche perché il Paese correrebbe il rischio di finire nuovamente isolato sul piano internazio­nale e il progetto della Nuova via della seta, con cui la Cina punta a penetrare nel cuore dell’Europa, oltre alla trattativa con Donald Trump sui dazi, ne risentireb­bero. Per il presidente Xi Jinping è prioritari­o però ripristina­re l’ordine e per evitare di arrivare allo scontro frontale il governo ha pure suggerito agli abitanti di Hong Kong di prendersel­a non con Pechino ma con le élite locali, responsabi­li della crisi abitativa (nella città-Stato un metro quadrato può arrivare a costare più di 40 mila euro) e delle disparità di reddito.

Una tesi che Ilaria Maria Sala, giornalist­a che vive a Hong Kong e che scrive per il New York Times, autrice di Pechino 1989 (Una Città, pagg. 48, € 12), non esita a rispedire al mittente: «Gli affitti erano spaventosa­mente alti anche prima delle proteste e se si chiede ai manifestan­ti quanto conti per loro la questione dell’emergenza abitativa loro rispondono che i prezzi sono alle stelle per effetto di una struttura sociale imposta dal governo centrale cinese. Per loro il problema del benessere si risolve solo con la democrazia ed è per questo che puntano il dito contro Pechino».

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Due studenti identifica­ti come R-O-N, a sinistra, e Cheung, a destra, parlano ai giornalist­i nel campus del Politecnic­o di Hong Kong il 24 novembre. Con loro, resiste un piccolo gruppo di occupanti.
POLITECNIC­O OCCUPATO Due studenti identifica­ti come R-O-N, a sinistra, e Cheung, a destra, parlano ai giornalist­i nel campus del Politecnic­o di Hong Kong il 24 novembre. Con loro, resiste un piccolo gruppo di occupanti.

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