DONNE La violenza non è mai amore
La prima volta che alzò le mani su una donna, lo fece con la madre. Uno schiaffo in faccia, perché sentirla urlare proprio non gli andava bene. E quando lei cercò di reagire, un altro schiaffo, ma questa volta chiudendo la mano all’ultimo. Poi gli capitò ancora, con la sorella, con le fidanzatine. Quelle botte facevano parte di lui. Un tratto della personalità, diceva, solo un difetto del sistema. E le convinceva tutte, perché ad amare era il migliore. Amava con dedizione, senza mai posare lo sguardo altrove. E allora, qualche baruffa si poteva anche sopportare. Una spinta, un morso che strappa i vestiti, una stretta al braccio non erano nulla vicino alla bellezza dei suoi gesti d’amore. Era vero, Marco per le donne avrebbe scalato i grattacieli più alti. Avrebbe riempito il mare di rose. Avrebbe ucciso, se fosse stato necessario.
Irene, la vide per la prima volta in treno. Dormiva, con la faccia posata sul cappotto stropicciato. Fili di capelli in bocca. Un neo tra sopracciglio e palpebra. Una creatura così doveva essere sua. La sposò in primavera e le diede in mano la propria felicità.
«Io sono tuo», le disse quel giorno, «e ogni sorriso che farai sarà un mio sorriso. Ogni tuo gesto, un mio gesto».
Marco, insomma, aveva perso la testa, e promise a sé stesso di trattarla con delicatezza, come fanno gli archeologi quando spazzolano via i detriti dai reperti. Era certo che con lei sarebbe riuscito a tenere sotto controllo la sua sciocca impetuosità.
Ma, ahimè, Irene aveva un sogno. Un sogno che non lo includeva. Irene voleva iscriversi all’Università. «Voglio studiare!», aveva detto.
«Non vedo il motivo».
«Lo vedo io».
Discussero a lungo, quel giorno, e da quel giorno tutto cambiò.
Oggi Marco, stremato dalle mille domande, si chiede come sia stato possibile.
«Non lo so, non lo so!», grida.
Non voleva ucciderla, voleva solo che la smettesse di piagnucolare.
Il commissario insiste.
Marco scuote la testa e cerca nei ricordi quella scintilla che ha dato fuoco alle sue mani.
«Mi creda, non volevo».
Non avrebbe voluto. Irene era tutto per lui. E lei lo sapeva bene, era grata. Facevano l’amore sempre. E sempre si stringevano forte, vivi l’uno per l’altra.
«Ogni tanto le ho dato degli schiaffi, ma lei mi capiva», spiega al commissario. E piange, perché a pensarsi senza Irene proprio non ci riesce. Era lei che lo svegliava la mattina a suon di baci. Lei, che lo ascoltava parlare anche quando il sonno le pesava sui grandi occhi chiari. «È colpevole di femminicidio», gli dice il commissario. Marco si maledice. Aveva promesso mille volte di smetterla. Con i denti si morde la lingua fino a farla sanguinare. «Dovevo fermarmi», pensa. «Dovevo fermarmi prima». E invece, nella furia, i colpi erano diventati sempre più forti, e quella testolina non era più di Irene, era di una puttana che non aveva imparato a tenere la bocca chiusa. A suon di calci avrebbe capito, sì. E non si sarebbe mai più permessa di minacciarlo.
Ma Marco aveva esagerato, avrebbe dovuto trattenersi. Quella testa invece si è spaccata. E ora Irene è morta. «Le ha procurato anche lesioni al fegato, ai reni».
Era già successo tante volte di litigare, era successo di esagerare. Ma fare pace era così bello che cancellava tutto. E si ricominciava, sempre convinti di aver superato il dolore. Irene non badava ai segni sul proprio corpo, o alle labbra spaccate. No, lei piangeva solo un po’, e basta. Perché quelle ferite le ricordavano soltanto di quanto l’amore faccia perdere il senno. Marco lo diceva sempre: «Ti amo così tanto che mi fai impazzire».
E così, ogni tanto, impazziva. Per poi baciarle i piedi. E Irene, che era buona, lo perdonava. Irene era perfetta. E adesso, senza di lei niente avrà più senso.
A Marco mettono le manette. Se lo merita. Deve pagare. Fuori, in piazza, la gente sputa.
*Attrice, è appena uscito il suo primo romanzo, Gli altri (Rizzoli)