WOODY ALLEN Il nuovo film e la sua verità
L’ultimo film di Woody Allen, una commedia romantica ambientata a New York, esce in Europa ma non negli Usa, dove è stato bloccato in seguito alle accuse di molestie. Ma, racconta il regista, la sua innocenza è già stata dimostrata due volte in tribunale. E presto racconterà la sua verità (anche su Mia Farrow) in un libro
Cammina a piccoli passi e non ci sente benissimo. Per il resto, Woody Allen è identico da almeno un paio di decenni. Pantaloni di velluto a coste, camicia azzurrina e occhiali alla Woody Allen, fuori. Ironia, solo un po’ ammorbidita dagli anni, dentro. Per promuovere il suo ultimo film, Un giorno di pioggia a New York, ha scelto Parigi. Una città che ama da sempre e che, insieme all’Italia, lo accoglie con affetto nonostante gli scandali. Un anno e mezzo fa, Ronan, uno dei figli adottivi della sua ex compagna, Mia Farrow, è tornato ancora una volta ad accusarlo di molestie nei confronti della sorella Dylan. E, la scorsa estate, il suo nome è stato associato ai famigerati party di Jeffrey Epstein, il criminale accusato di abusi sessuali morto in carcere in Florida lo scorso agosto.
Risultato: l’uscita di Un giorno di pioggia a New York, al cinema da noi il 29 novembre, negli Stati Uniti è stata bloccata. «Ma se andrà bene in Italia e nel resto d’Europa, magari si decideranno a farlo uscire anche in America», mi dice. Protagonisti della storia, ambientata a Manhattan, sono Timothée
Chalamet, Elle Fanning e Selena Gomez. Chalamet è uno studente svogliato, Fanning la sua fidanzata, ingenua ed entusiasta, e la Gomez un’amica d’infanzia, che un tempo aveva una cotta per lui. Insomma, il classico triangolo amoroso.
Il personaggio di Chalamet è un fanatico del gioco d’azzardo. Anche lei se la cava bene, o sbaglio?
«Da giovane pensavo che avrei potuto farlo di professione. A scuola, quando con gli altri ragazzi si parlava di che cosa avremmo voluto fare da grandi, io sapevo che non sarei mai diventato dottore, avvocato o manager. E, siccome da piccolo avevo imparato a fare i trucchi e a manipolare le carte, ero convinto che avrei potuto guadagnarmi da vivere giocando a poker».
Sta dicendo che barava?
«Da ragazzo? Sì. Ed ero piuttosto bravo. Ma crescendo ho imparato a far bene anche senza. Mentre gli altri erano lì per divertirsi, per stare in compagnia e bere, io contavo le carte, osservavo ogni minimo comportamento. Volevo vincere».
Una passione di famiglia visto che suo padre era un bookmaker?
«Lo era stato, l’allibratore alle corse dei cavalli, ma prima che nascessi. Nella sua vita aveva fatto un sacco di lavoretti diversi: il cameriere, il barista, l’autista di taxi, il gestore di una sala da biliardo. A un certo punto aveva un negozio di alimentari».
È vero che da anni, ogni settimana, spende 100 dollari in biglietti della lotteria?
«No, non regolarmente. Solo quando c’è un grosso montepremi in palio. Mio padre, invece, lui giocava al lotto ogni giorno. Qualche volta gli andava bene, ma si trattava sempre di piccole somme».
Se dovesse vincere, come userebbe il denaro?
«Ci finanzierei un film. Mi eviterebbe di dover lottare per mettere insieme i soldi».
Il suo primo lavoro, da ragazzo, è stato il venditore di battute. Come le era venuto in mente?
«Sapevo che c’erano persone che lo facevano di mestiere, per gli show in tv, per i cabarettisti. Ma qualcuno che conoscevo mi suggerì di mandarle ai giornali. Avevo 15, 16 anni, ogni giorno tornavo da scuola, buttavo giù un po’ di battute e le spedivo per posta. Nel giro di qualche settimana, cominciarono a pubblicarle nelle rubriche di gossip, di spettacolo e nelle pagine di politica. Poi, un giorno, ricevetti una telefonata. Era una compagnia che lavorava per attori, produttori e mi chiesero di scrivere per i loro clienti. Usavano le mie battute divertenti in radio, in televisione. Le spacciavano per roba loro, in realtà, ero io a scriverle. Ma mi pagavano bene».
Tornando al film, Un giorno di pioggia a New York è una love story come, in realtà, lo sono tutti i suoi film. Si considera una persona romantica?
«Assolutamente. Lo sono sempre stato».
Può provarlo?
«Certo. Sono cresciuto guardando un mucchio di film e ho sempre cercato di comportarmi come gli eroi romantici che vedevo al cinema. Imitavo il loro modo di corteggiare le donne. Con piccole sorprese, come trovare il vino e il ristorante perfetto, nascondere un gioiello dentro il dessert».
Lo ha fatto davvero?
«Non era un diamante, ma un paio di biglietti per uno spettacolo che voleva vedere».
Qual è il segreto per una relazione felice?
«Fortuna. Non esiste una ricetta, una scienza, non basta volerlo. La gente dice: “Il nostro rapporto funziona perché ci abbiamo lavorato su”. Non puoi lavorare a una storia d’amore. Gli esseri umani sono così complicati, ci sono tante variabili. È come quando al tuo organismo manca un minerale, una vitamina. Sembra una cosa da niente, infinitesimale, eppure ti può uccidere. Lo stesso nelle relazioni, basta che manchi un pezzetto, anche un solo ingrediente, per rovinare tutto».
Ha definito quello con Soon-yi un matrimonio felice.
«Ma sono stato sposato tre volte. La prima (con Harlene Rosen, ndr) quando avevo vent’anni e non è andata proprio bene. Soprattutto per colpa mia, lo ammetto. Era una ragazza fantastica, intelligente, una bravissima pianista. Ma eravamo troppo giovani. E anche il mio secondo matrimonio è finito (con Louise Lasser, dal 1966 al 1970, ndr). Ma sono rimasto in ottimi rapporti con entrambe».