TOMMASO GIULINI Il presidente del Cagliari
A Cagliari, mezzo secolo dopo lo scudetto del 1970, c’è un presidente anomalo, Tommaso Giulini, che programmando il domani sta riscrivendo la storia
La paura del portiere prima del calcio di rigore, a volte, non è il peggio: «Alla SantA’ mbrogio in Barona, a Milano c’è fango, pioggia e gente che urla sugli spalti. L’attaccante sistema il pallone sul dischetto. Poi tira. Intuisco la direzione, respingo e in qualche modo riesco a fare mia la sfera. Passano tre o quattro secondi e in differita, credo con dolo, mi arriva una terribile pedata in faccia. Comincio a perdere sangue dal sopracciglio. Tanto sangue. All’improvviso non vedo più niente, mi portano al San Paolo e per chiudere la ferita mi applicano dei punti». Tagliare, cucire. Forse è così che si guarisce e si realizza il proprio sogno. Tra i pali, da ragazzo, Tommaso Giulini: «Ero un po’ pazzo, più Zenga che Zoff, sicuramente» rischiava. Da adulto preferisce programmare perché, dice: «Non mi piace né l’idea di un mecenatismo di corto respiro in cui si mettono a repentaglio i propri capitali, né quella sbagliata e socialmente immorale di guadagnare con il calcio.
Non voglio rovinarmi e non voglio arricchirmi. Cerco la sostenibilità, la stabilità, la serietà. Sono un gestore, la squadra è dei tifosi e tutto quello che posso mettere nell’impresa è la passione». Del miracoloso Cagliari di questo primo terzo di campionato, Tommaso Giulini è il taumaturgo. Acquistò la società nel 2014, da Massimo Cellino, in coda a 22 anni di ininterrotta reggenza dell’attuale proprietario del Brescia e dopo circa tre mesi di trattativa, dietro a nuvole di fumo e fantasiose apparizioni di munifici principi arabi e fantomatici fondi statunitensi, apparve la sua figura. Venne accolto da scetticismo e insulti e oggi, «non senza qualche errore iniziale», con gli undici di Rolando Maran all’inseguimento folle e un po’ romantico di una chanson ritmata dalle note della Champions League, Giulini il lombardo è in odore di beatificazione. In questa storia, le date hanno il loro peso. L’azienda di Giulini, la Fluorsid, leader mondiale nell’estrazione e nella lavorazione dei derivati del fluoro, venne fondata mezzo secolo fa, dal conte Carlo Enrico, padre di Tommaso, a Macchiareddu, nel cagliaritano. 1969. L’anno in cui Gigi Riva e Manlio Scopigno convinsero una regione e un popolo a unirsi in un abbraccio da scudetto nel catino dellA’ msicora e l’Italia intera, fino ad allora abituata a considerare l’isola come un avamposto militare o vacanziero, ad accorgersi di loro.
Ancora pochi mesi e il Cagliari, nato nel 1920, festeggerà il proprio centenario. Va da sé che l’ambizione, con le debite distanze, sia ripetersi. Il signor Giulini che somiglia in modo impressionante a Guardiola, ci va piano: «Una volta in aeroporto, a Francoforte, mi fermano dei ragazzi tedeschi. Molto entusiasti e molto ebbri: “Pep, ciao, ci fai un autografo?”. Ho dovuto deluderli e spiegargli che mi chiamo Tommaso”». Per non ubriacarsi, ora che il Cagliari insegue Juventus e Inter, serve sobrietà.
È davvero impossibile sognare?
«La mia aspirazione era quella di provare a fare calcio di grande livello in serie A ed ero convinto che dando al club una nuova impronta imprenditoriale si potesse migliorare tutto quel che di buono aveva fatto Cellino nei suoi due decenni alla guida del Cagliari. Di quell’intuizione, cinque anni dopo, si iniziano a vedere i frutti».
Perché ha acquistato il Cagliari?
«Per restituire qualcosa a un territorio dal quale la mia famiglia ha ricevuto tantissimo. Il legame dei Giulini con la Sardegna è una storia antica che affonda le proprie radici nell’attività imprenditoriale di mio padre, a Silius, nel Gerrei. Così quando l’ex sindaco di Cagliari Mariano Delogu mi telefonò nel febbraio di sei anni fa per segnalarmi che Cellino era davvero disposto a vendere, mi misi immediatamente in moto: “Perché no?” mi dissi “proviamo”. Quello era il momento giusto».
Perché il momento giusto?
«Perché nella mia azienda, dopo anni da frontman trascorsi in viaggio con la valigetta in mano tra gli Emirati e i Balcani stilando accordi per la fornitura di fluoruro di alluminio, ero arrivato in qualche modo alla fine di un percorso iniziando già da tempo a essere molto più azionista e molto meno manager. Avevo cominciato a delegare da tempo alle persone di cui mi fido una parte importante del lavoro e a responsabilizzarle sul campo. Una sola cosa non puoi permetterti quando opti per una soluzione simile e hai la forza di affrontare una scelta del genere: ripensarci, tornare indietro, ricrederti».
Il calcio è un’attività rischiosa.
«Il calcio è un romanzo. Non è schematico come un diagramma aziendale né offre le certezze previsionali di un piano decennale. Ci sono probabilità, ipotesi, embrioni di prospettiva che magari muoiono per un infortunio, un colpo di vento, una zolla di terra, un gol sbagliato. In campo alla fine vanno undici uomini. Come avranno dormito? Come si saranno svegliati? Avranno litigato con il figlio o con la moglie fino a esserne condizionati nei novanta minuti? Non lo sai mai. Non lo puoi mettere in conto. Con il Cagliari vivo alla giornata, con l’incoscienza che in altri ambiti della mia attività non potrei mai adottare».
Cosa le dà il calcio?
«Emozioni, adrenalina, senso del brivido. Rischiare, correre in macchina, il poker: sono cose che mi piacciono. A calcio ho giocato per anni nelle categorie inferiori e quello sport mi è sempre piaciuto, anche da spettatore. Prima di diventarne presidente, andavo spesso a vedere le partite del Cagliari».
In famiglia erano favorevoli al passo?
«Tutt’altro. Per indole siamo inclini al basso profilo e distanti dalla vita sociale forzata e che ogni ruolo in vista impone.
Amiamo stare con i vecchi amici di scuola, non certo esporci alla tempesta mediatica che una vittoria o una sconfitta fanno soffiare. Quindi la mia famiglia, mia madre e mia moglie hanno cercato di bloccarmi per il mio bene, lo stesso sarebbe accaduto se fosse stato ancora vivo mio padre e le dico la verità, non sono così contenti neanche i miei figli».
Dice davvero?
«Li capisco. Se escludo Giacomo, il mio secondo figlio, il più appassionato che spero un giorno possa arrivare a darmi una mano, gli altri sono riottosi ad accettare l’idea che sia presidente. Ogni tanto mi dicono: “Papà, perché non lasci il calcio?”. Anche se magari si tratta di battute innocenti, il lunedì, a risultato acquisito, in qualsiasi città d’Italia, la frecciata dall’amico gli arriverebbe sempre. È il motivo per cui non vivo a Cagliari. Se mi stabilissi qui e li iscrivessi in una scuola cittadina rovinerei loro la vita. A Milano almeno non li conosce nessuno».
Eppure lei il Cagliari lo ha acquistato.
«Non è stato un unico motivo che mi ha persuaso a cedere, ma una concomitanza di fattori. Il più importante di tutti, forse, è che a un certo punto, quando ti si para di fronte un bivio, una strada da imboccare, un dubbio: devi scegliere. Avvenne così anche quando da dipendente mi trasformai in imprenditore».
Come andò?
«Era il 2005 e in Fluorsid dovevamo scegliere se procedere o meno a un aumento di capitale. Sullo sfondo si intravedeva già la concorrenza dei cinesi, non c’era più un minuto da perdere e avevo capito che i due principali azionisti dell’azienda, mio padre, un signore che all’epoca aveva già 85 anni e la Regione Sardegna, per molte e diverse ragioni quell’aumento non lo avrebbero mai sostenuto. Allora alla scadenza del termine, un minuto dopo la mezzanotte, quell’aumento decisi di farlo io. In autonomia e con il sostegno di mia madre. Mi presi un rischio e insieme a chi c’era già, gente attaccatissima al proprio lavoro e al team che si era creato in seguito, salvai l’azienda facendola riparare in un porto sicuro».
Nei mercati in cui si muove la Fluorsid non esistono porti sicuri.
«Ma esistono maniere di proteggersi dagli tsunami. Formare un gruppo di top manager, farsi strada in avamposti finora inaccessibili, confermarci leader mondiali nel mercato dell’alluminio primario e dopo aver rilevato il polo di Porto Marghera, l’ex Montedison, da Solvay, conquistare nuovi mercati per l’energy storage grazie al nostro starting material, la fluorite, che ha un vastissimo spettro di usi. Ci si difende anche attaccando».
Invertendo i fattori, sembra proprio la filosofia del suo Cagliari. Dopo le prime due sconfitte in molti attaccavano il tecnico Maran e chiedevano a gran voce il suo licenziamento.
«E sbagliavano. L’istinto mi suggeriva di dargli fiducia e credo che infondere tranquillità a Maran, visti i risultati, sia stata un’ottima idea».
Che doti si riconosce Tommaso Giulini?
«So capire le persone. So scegliere i miei collaboratori e nel farlo, sono stato bravo e fortunato. Non mi sento un imprenditore modello, ma so lasciare nelle mani delle persone di cui mi fido grandi responsabilità perché non ho gelosie e quando un altro fa bene al mio posto, portando avanti le mie idee, non può che farmi molto piacere».
Hanno mai provato a fregarla?
«Un’infinità di volte. Mi apro rapidamente e cerco sempre di creare un rapporto con l’altro. Ma se mi rendo conto di essere stato ingannato o deluso sono consapevole di poter diventare cattivo».
Chi era a vent’anni il figlio di un capitano d’azienda dall’eredità quasi obbligata?
«Finii l’università, l’ESSEC, a Parigi e come sempre accade una volta usciti da queste grandi Ècole legate al commercio, venni cercato dai cacciatori di teste. Per un po’ senza
entusiasmo mi occupai di software, poi io e il mio più caro amico ricevemmo un’offerta da Cartier. Lui accettò fino a diventare poi uno dei più giovani dirigenti di sempre di Cartier mondo. Io, mio malgrado, rinunciai».
Per quale ragione?
«Il direttore commerciale di Fluorsid andava in pensione e mio padre, con il quale all’epoca non avevo un gran rapporto ebbe la forza di dirmi “Non sai niente di me: perché non vieni a vedere cosa ho fatto nella mia vita?”. Papà era al terzo matrimonio, viveva tra Losanna e Lucerna, non lo vedevo praticamente mai. Mi decisi e andai prima di tutto a imparare: di chimica non sapevo niente. In breve iniziai a girare il mondo. Per il lavoro bisognava viaggiare tantissimo e a poco a poco, incontrando realtà anche stranissime, diventai adulto».
Realtà stranissime in che senso?
«Le spiego con un esempio. A 26 anni le dinamiche del lavoro mi avevano portato a essere molto vicino ai vertici del Governo del Montenegro. Un Paese il cui Pil dipendeva al 50 per cento dall’alluminio, e uno dei primi ad aderire alla moneta unica, pur senza stampare valuta. Capitava allora che ti convocassero all’improvviso insieme agli altri business partner per fare accordi immediati che ovviassero alla mancanza di valuta ed è quando ti ritrovi giovanissimo in queste dinamiche pazzesche, che inizi a capire come gira il mondo».
E come gira il mondo?
«In modo molto diverso da come lo studi sui libri. All’epoca c’era ancora il fax, oggi esiste la mail. Ma gli affari si fanno guardandosi negli occhi. All’epoca in cui le Big Four andavano dagli sceicchi a suggerire come diversificare il mercato del petrolio, mi trovai a fare spesso affari negli Emirati, in Oman, Barhein, Qatar, Arabia Saudita. Un’opportunità clamorosa perché in nessun luogo del mondo, Cina esclusa, si è registrato un tasso di crescita dell’alluminio simile a quello che c’è stato in quelle realtà. Pensi che per molto tempo il nostro cliente più importante è stato EGA (Emirates Global Aluminium, ndr) ma dopo vent’anni è andato in pensione il nostro referente e nel 2019, Dubai è l’unico luogo in cui non vendiamo».
(Inizia a farsi buio e la partita con la Fiorentina si avvicina, nel giardino di Assemini, il centro tecnico in cui si allenano il Cagliari e le giovanili passano calciatori, allenatori, magazzinieri, vecchi amici di quella che a tutti gli effetti sembra una famiglia. Si ferma Max Canzi, il tecnico della Primavera che proprio come la prima squadra è nelle prime posizioni. Giulini lo ferma: «Max è stato il mio allenatore»).
Racconti.
«Era bravissimo. Non avrei mai avuto le qualità per diventare professionista, ma lui mi aiutò a crescere come persona. È quello che facciamo qui fin dalle Academy. Formiamo prima gli uomini e poi i calciatori. La squadra primavera è la soddisfazione più grande che ho avuto dal calcio. Quattro anni fa partimmo con un gruppo di quattordicenni, oggi questi ragazzi, quasi tutti sardi, interamente formati da questa gestione, si affacciano in serie A. Merito anche di Max e di Daniele Conti. Da calciatore fu una bandiera, oggi è un esempio, amatissimo, di come ci si può reinventare mettendo la propria sapienza a disposizione degli altri. Pensi che all’inizio io e Daniele ci guardavamo in cagnesco».
Come mai?
«Al mio primo anno di presidenza retrocedemmo in serie B. Daniele attribuiva in parte a me le colpe della caduta e io le attribuivo in parte a lui, al capitano. Poi abbiamo capito entrambi che le responsabilità di quella discesa erano la somma di diversi fattori e oggi abbiamo un rapporto molto bello».
Saper cambiare idea è importante?
«Il consiglio più prezioso che mi ha dato mio padre, la sua frase ricorrente era: “Solo i cretini non cambiano idea”. È il marchio della mia vita. Chi non sa cambiare idea è un idiota. Le racconto una cosa. Nel 2014 assunsi Zeman. Dopo la fine del connubio feci un’analisi severa sostenendo che Zeman non fosse adatto alla serie A. In realtà ci possono essere come sempre molteplici letture. Fummo noi a non metterlo nelle condizioni adatte a eccellere. Se fossimo stati capaci di aiutarlo e gli avessimo fornito gli strumenti per far emergere il suo talento saremmo stati in grado di farlo rendere per quel che vale anche in Serie A».
Ogni tanto separarsi è doloroso.
«Sono momenti complicati. Devi comunicare la fine del rapporto professionale a persone con le quali, affezionandoti, magari hai festeggiato fino alle cinque del mattino tra sudore e lacrime».
Il Cagliari è nelle prime posizioni. Lei sul mercato ha acquistato o preso in prestito calciatori come Nandez, Nainngolan, Olsen e Rog. Cosa si è messo in testa?
«Reinvesto ciò che entra nelle casse societarie. Se incasso 45 milioni di euro dalla cessione di Barella li rimetto in circolo. Cerco di dare una gioia ai nostri tifosi. C’è qualcosa di unico e di magico nel fare calcio a Cagliari. Anzi, posso correggere un concetto».
Prego.
«Il tifoso è il continentale. Chi segue il Cagliari è un innamorato. Della sua squadra e della sua terra».
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