Vanity Fair (Italy)

LETTERE La Buonanotte di Luca Dini

- Di LUCA DINI *

Io e la mia famiglia, mamma compresa, non sappiamo esattament­e cosa ci aspetti. La SLA ci ha portato via la vita che avevamo prima e ce ne ha restituita un’altra che non ci piace ma alla quale vogliamo e dobbiamo provare ad adattarci. E dalla quale cerchiamo di trarre il meglio. Come con tutti i traumi, perché di questo si tratta, abbiamo imparato alcune cose che forse non avremmo neanche considerat­o o notato (non che questo ci renda grati verso il mostro, è solo un’amara constatazi­one).

Abbiamo imparato a gioire di cose che prima avremmo reputato futili. Un esempio? La felicità nel trovare un deambulato­re da passeggio che avesse un cestino dove mamma potesse mettere lo zaino con dentro la bombola dell’ossigeno.

Col tempo abbiamo cominciato a ridere di ciò che prima ci faceva soffrire. Non è cinismo, ma un modo per esorcizzar­e e cercare di non dare importanza a quella bestia che si chiama SLA: quando mamma cerca di dire una parola e non le esce qualche lettera noi cominciamo a dirle «Vuoi comprare una vocale?», oppure iniziamo a tirare a caso parole simili e lei ride con un sorriso bellissimo. E quello che ammiro di lei è che ci prova fino allo sfinimento a parlare e a farsi capire. E quando le parole proprio non vogliono uscire, usa i gesti e noi le diciamo che è meglio di una hostess sugli aerei.

Ho provato sulla mia pelle quanto mi manca la risata di mamma e mi ritrovo a cercare video e foto in cui lei ride e se c’è una cosa che mi consola è che sempre più persone mi dicano: «Assomigli tanto a tua mamma».

La SLA è un mostro subdolo e invadente e una delle mie paure più grandi è dimenticar­mi il suono della voce di mamma quando mi chiamava per nome. Questo è uno dei dolori più difficili da accettare e a cui adattarsi e una delle cose che questa malattia ci ha portato via per sempre. Se avete un parente colpito da questa bestia e siete ancora in tempo, registrate la sua voce e fate dei video per immortalar­e espression­i, gesti, posture e atteggiame­nti. Perché poi non ci sarà più tempo e le foto, per quanto belle, non vi potranno dare questi particolar­i. Io non ci ho pensato, forse anche perché nessuno me lo aveva suggerito, e l’unica cosa che posso dire a mamma adesso – con un nodo alla gola – è «Mi manca la tua voce».

Spero di avergliela ridata attraverso questo libro.

STEFANIA MARTA PISCOPO

Stefania ama tutte le canzoni che amo io (ne ha messa una all’inizio di ogni capitolo) e ha studiato lingue come me. Ma dopo nove anni nel marketing di una multinazio­nale ha seguito la sua vera passione: «Non faccio l’infermiera, lo sono», scrive. Ha un marito, Graziano detto il Grinch, un fratello, Nicola, una cognata spagnola, Conchi, una nipotina bionda, Olimpia, un papà, Piero, che

«è un ferroviere in pensione, ha il naso grosso e i capelli di un bianco che amo. In famiglia è noto come Macgyver per la sua abilità nell’aggiustare ogni cosa».

E poi ha una mamma, Lella, che è «dolce, e tenta invano di placare Macgyver», e a cui un anno fa è stata diagnostic­ata la SLA. A maggio le davano tre mesi di vita. Invece, e rubo altre parole a Stefania, «il 24 agosto, per festeggiar­e quei famosi tre mesi, siamo uscite a fare compere; il 3 settembre mamma e papà hanno festeggiat­o il 50° di matrimonio; il 12 lei ha tenuto la mano a Olimpia accompagna­ndola nel suo primo giorno di scuola».

Stefania racconta la sua storia in Mi manca la tua voce Da figlia a caregiver, contro la SLA (La Memoria del Mondo, pagg. 234, € 15), con la prefazione di Mina Welby. Dal libro è nata la pagina Facebook e Twitter Essere un caregiver, per far nascere una community dove chi si occupa eroicament­e di un caro – il caregiver, appunto – possa trovare ascolto, consiglio e conforto. Stefania dice di averlo scritto come terapia, e lo considera «un manuale di sopravvive­nza» che cerca di dare consigli pratici a chi si trova nella sua situazione, e farlo sentire meno solo. Ma io lo consiglio a tutti voi, e non soltanto perché parte del ricavato verrà devoluta all’Hospice di Abbiategra­sso che tanto sta facendo per Lella (e per i suoi familiari). Lo consiglio perché è un gran bel libro, e perché fa pensare.

Ero ragazzo quando persi mio padre, dopo una lunga malattia che gli aveva tolto la parola. Ci ho messo anni per tornare a sentire, in sogno, il suono della sua voce di prima, di quando stava bene. Il consiglio di Stefania lo estendo a chiunque: fatele quelle registrazi­oni, fateli quei video. Sono ricordi che nessuno mai vi potrà togliere.

Buonanotte.

*Direttore Editoriale Condé Nast

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