ANDREI KONCHALOVSKY Il suo Michelangelo
Nel nuovo film sulla vita di Michelangelo, il maestro russo non vuole raccontare l’artista ma i conflitti dell’uomo, i cedimenti alle miserie, l’aspirazione al sublime. E lo sguardo del genio che riesce ad accedere all’invisibile
Vedo troppa gente e non ricordo più da quale bocca sia uscita: «I gesti generosi che fai, prima o poi ti tornano indietro». Forse era Gandhi. Forse, Gesù. Più probabile, l’ispirata postina che batte ogni santo giorno i portoni di Trastevere tutte le mattine. Sta di fatto che penso a questo mentre l’ottantaduenne Andrei Konchalovsky mi aiuta a sistemarmi il bavero del giaccone nel camerino del teatro Quirino, a pochi minuti dall’inizio del suo Amadeus, prima romana. Lo stesso gesto, in un ristorante di Manhattan molti anni prima, l’avevo fatto aiutando il tremolante Mohammed Alì a infilarsi il cappotto. Non sono malato di Parkinson che io sappia, solo leggermente imbranato nel rapporto con la materia, resta il solco profondo lasciato da qualunque gesto premuroso, soprattutto se inatteso. Si apre e si chiude così la mia giornata perfetta sulle tracce del magnifico Andrei, il regista di A 30 secondi dalla fine, nella mia top ten di sempre, il più grande Jon Voight di sempre, cento volte più grande che nello strombazzato Uomo da marciapiede.
La mattina, il piacere tutto onanistico di assistere in solitudine nella dark room di Raicinema a Il peccato. Splendido e toccante film sulla fatica di essere bestia e angelo di un Michelangelo mai visto prima. Furioso nel peccato e nella grazia. Che ama il denaro come un feticcio, diventa ricco, ma vive da straccione maleodorante. Che dorme nel letto di Dante Alighieri come fosse la porta di Dio, torturato dalle mosche e dal fetore, il proprio e quello di un Rinascimento che si batte eroicamente per sopravvivere e inventare bellezza nel suo pozzo nero. Un capolavoro tutto da respirare a cuore aperto.
E poi, la sera l’appuntamento con lui, il magnifico russo. Il Maestro non sta benissimo. Problemi di pressione. Ma la domanda non è come stia, ma come riesca a stare. Lì e in tutti i set e i teatri del mondo. Un’impresa, la sua, che abbatterebbe anche un toro di Pamplona. Lo sostiene uno stuolo di donne, Oleysa Gidrot su tutte, moscovita, volto che pare un dipinto, produttrice esecutiva e factotum dell’irrequieto regista. Andrei mi guida negli anfratti del teatro a cercare il silenzio giusto, incrociando attori in parrucca e abito settecentesco, lo stesso Mozart suppongo, fino al camerino, lo stesso dove quasi quarant’anni prima Carmelo Bene truccato da Pinocchio disse a un ragazzo adorante: «Che cazzo stai a fare qui a perdere il tuo tempo, parti con me in tournée». E il ragazzo partì.
Andrei capisce e parla l’italiano, ha una casa in Toscana, ama l’Italia, ma si sente più confortevole in inglese. Tra colpi di tosse che ogni tanto lo spezzano in due ma non lo piegano. «Gli ultimi sette mesi sono stati molto pesanti. Tra il debutto a Mosca e l’anteprima italiana di Scene da un matrimonio, la regia di Otello, opera lirica. Ora qui con Amadeus, aggiungi la promozione per l’uscita del Peccato.
Roba da riempire una vita.
«Non so chi sia in grado di fare tutto questo. Tre pièce teatrali e tre film. L’estate scorsa ho finito di montare altri due film. È l’ultima volta questa che mi ammazzo così».
Mi ha emozionato Il peccato. Antonin Artaud diceva che il cinema lo intorpidiva. Troppo astratto, non toccava i suoi nervi. Nel tuo film la fisicità, la fatica di vivere, gli odori e l’orrore dei corpi. Tutto arriva come un guanto di ferro.
«Artaud aveva ragione. Il cinema non ha la sensibilità del teatro che è energia diretta. Il teatro è ascolto. Puoi anche non guardare. Possono goderlo anche i ciechi. Al contrario, il cinema se lo possono godere i sordi. Questo cambia il modo di pensare e di scrivere un testo».
La scelta di farlo vedere in 4:3.
«Preferisco questo formato. Puoi vedere il cielo sopra le teste delle persone. Come accade nella vita».
Il tuo Michelangelo mi ha ricordato il Manny alias Jon Voight di A 30 secondi dalla fine e tanti altri suoi protagonisti. Uomini furiosi, portati all’estremo dall’urgenza di andare oltre i propri limiti. Vale anche per Konchalovsky?
«Questi ultimi sette mesi dimostrano in me la stessa avidità di agire. Non è facile creare una furia verso le cose più alte dello spirito. Non è come raccontare la furia di uccidere o di rubare di un gangster. Cechov era un grande in questo. Prendere un linguaggio semplice e adattarlo a un’aspirazione nobile».
Vero che fu Coppola a suggerirti come regista a Kurosawa per A 30 secondi dalla fine?
«Verissimo. Kurosawa era scappato da Hollywood lasciando la sceneggiatura a una Major. Quindici anni più tardi si è ripreso i diritti. Non voleva fare il film in America. Chiamò Coppola e lui, grazie a Dio, fece il mio nome».
Già dall’incipit, il Michelangelo sudicio e delirante che pesta la strada. E poi, quando dorme nel letto di Dante e lo evoca nel silenzio. «Dove sei»? Il rapporto con l’invisibile, quando il visibile è insostenibile.
«Accedere all’invisibile è la virtù del genio. Gli altri pensano che il mondo sia quello che vediamo con i nostri occhi. I grandi artisti fanno un salto oltre questo recinto, vedono oltre. Chi salta cade, ma il genio levita, resta sospeso».
Cosa c’è oltre il recinto?
«Sanno che c’è qualcosa oltre il recinto, ma nessuno sa se
questo oltre è interessante. Non voglio sembrare uno sciamano, ma il massimo che riesci a cogliere è il mistero. Una domanda che non ha risposta».
Michelangelo dice alla fine del film: «Volevo trovare Dio, ma ho trovato solo l’uomo e mi sono perso».
«Ecco appunto una domanda che non ha risposta. Non voglio commentare. Qualunque sia la risposta, io dirò sempre: hai ragione».
Michelangelo dice anche: «Tutta questa bellezza per ladri, assassini e puttanieri».
«Non m’interessava raccontare la vita dell’artista, ma i conflitti dell’uomo. Che sono poi in tutti noi. I cedimenti alle miserie peggiori e l’aspirazione al sublime».
Il suo rapporto d’amore quasi fisico con il marmo. «Caro m’è il sonno, e più l’esser di sasso». Verso strepitoso.
«Una domanda che mi perseguitava: perché nella disperazione preferirebbe Michelangelo diventare un sasso, addormentarsi per sempre? Era l’unico modo per placare la sua follia».
Impressionanti le scene girate nelle cave di marmo a Carrara.
«Abbiamo ricostruito nel dettaglio tutte le tecniche del lavoro in cava. Ero ossessionato dalla verità storica. Gli operai delle cave sono stati grandiosi. Protagonisti del film almeno quanto Michelangelo».
Più vedevo Alberto Testone, l’attore che fa Michelangelo, più vedevo Pier Paolo Pasolini.
«Buffo. Michelangelo ha dormito nel letto di Dante. Io ho dormito nel letto di Pasolini a Campo de’ Fiori, nella casa romana di Laura Betti, mia grande amica di allora, quando ero un povero sovietico senza un soldo».
Generosa Laura con gli artisti spiantati dell’epoca.
«Pasolini era non so dove a girare un suo film e Laura mi accolse a un patto: ti prendi cura dei miei gatti. Avevo la finestra che si affacciava proprio su Campo de’ Fiori. Una meraviglia».
Allucinazioni o fantasmi dormendo nel letto di Pasolini?
«Dormivo molto bene, perché ero ubriaco tutti i giorni».
Ci si ubriacava volentieri in quegli anni da quelle parti.
«Uscivo spesso con un gruppo di amici tra cui c’era Bernardo Bertolucci che, all’epoca, stava preparando Ultimo tango a Parigi».
Pasolini sarebbe stato perfetto nella parte del tuo Michelangelo. Lo ricordo nel Decamerone altrettanto maniaco allievo di Giotto.
«Hai totalmente ragione. Anch’io l’ho vista così. All’inizio avevo chiesto un attore con un naso rotto, di cercarlo tra gli ex pugili. Non trovandolo, ho chiesto un attore che somigliasse a Pasolini. Alberto Testone era perfetto».
Quale il Pasolini cineasta che preferisci?
«Quello neorealista dei suoi primi film. Il mio preferito in assoluto è Il Vangelo secondo Matteo. Un capolavoro. La grande lezione del neorealismo di De Sica e di Rossellini è che facevano cinema eccelso utilizzando non attori. Questa è l’altra differenza tra cinema e teatro. Il teatro vuole attori professionisti, il cinema no. Anche Fellini utilizzava gente presa dalla strada».
La scelta del casting?
«Non volevo attori che sembrassero saponette. Abbiamo battuto per mesi tutta la Toscana a caccia di facce giuste».
Un film sul «furioso» Konchalovsky da dove dovrebbe partire? Dalla sua avidità di lavoro?
«Il mistero più grande oggi è cercare di capire i rapporti tra uomini e donne. Bergman è quello che più ci ha provato e riprovato».
Con quale risultato?
«Che gli uomini sono incapaci di spiegare le proprie azioni alle donne e le donne di spiegare le proprie percezioni agli uomini. Ci ha provato anche Alberto Moravia con Io e lui, ma non è stato molto convincente. Camille Paglia, grande filosofa, ha scritto che gli uomini vengono da Marte e le donne da Venere».
Mondi inconciliabili che non possono fare a meno l’uno dell’altro.
«Proprio così. Anche Fellini ci ha provato con 8½ a raccontare questo. La battaglia costante tra maschile e femminile, senza mai pace. Per fortuna. Laddove ci fosse, sarebbe la fine dell’umanità».
I tuoi cinque matrimoni sono la prova di questa battaglia incessante.
«L’unico che conta è l’ultimo. Dura da ventidue anni. Gli altri non hanno superato i tre. Con lei sono stato fortunato, abbiamo trovato la giusta combinazione. Anche Bergman ne ha cambiate cinque di mogli e non so quante compagne prima di trovare quella della vita. Rachmaninov diceva che una moglie dovrebbe dire al marito solo tre cose. “Sei un genio, sei un genio, sei un genio”».
Quando stai fisicamente dentro una donna è il momento in cui sei più vicino o più lontano al mistero femminile?
«Fare l’amore ha molti livelli. Può essere completamente animale, carnale, ed è il sesso. O completamente angelico. Quando sono entrambe le cose, diventa umano».
Sbaglio se dico che è il Pietro Germi del Ferroviere il regista italiano più vicino al tuo cinema?
La battaglia costante tra maschile e femminile è una fortuna: se ci fosse pace, sarebbe la fine dell’umanità
«Considero Germi un genio assoluto, ma sono tanti i cineasti da cui ho rubato. Il mio grande ispiratore è Kurosawa. Tra gli italiani ho una grande ammirazione per Ermanno Olmi. Aveva questo coraggio di raccontare, partendo da cose semplici, le cose oltre il recinto».
È una grande lezione anche la commedia all’italiana?