Da leggere
I racconti di Natale e aneddoti da tutto il mondo.
Sono almeno trent’anni che ci provo. All’inizio evadendo il Natale come si evade la posta, poi tentando delle vere e proprie fughe che a poco a poco hanno dato all’evasione un’accezione carceraria. Ma non è facile evadere dal Natale, nemmeno scavando un tunnel fino alle Maldive (una palma addobbata mi attendeva sulla spiaggia) o fingendo un attacco influenzale. Forse – ho pensato l’anno scorso – anziché buttarmi malato dovrei buttarmi dalla finestra. Ma poi ho realizzato che anche il mio suicidio sarebbe stato attribuito al clima di festa (tutto questo Jingle Bells).
Dal Natale non c’è scampo. O almeno così pensavo prima che mi venisse l’idea di fregarlo sul suo stesso terreno: se quella falsa allegria aveva il potere di spingerci in una cella e di buttare la chiave fino alla Befana, forse avrei potuto fare altrettanto, volontariamente, in una stanza tutta mia. Ovviamente non sto parlando dell’appartamento dove vivo, pieno di spifferi che comunicano con l’esterno, e nemmeno di una camera d’albergo piantonata da un vecchio portiere pronto a farti gli auguri appena messo piede nella hall. No, per attuare il mio piano c’era bisogno di un luogo speciale, dove infiltrarsi e rimanere nascosto da tutto e da tutti. Un museo? Minacciavano in massa aperture speciali. Un grande magazzino? La merce esposta non avrebbe fatto che ricordarmi ciò da cui fuggivo. Girando alla ricerca del nascondiglio giusto, non vedevo un solo angolo immune dal Natale. Poi, in una stradina defilata, ecco l’illuminazione: anch’essa, va detto, era incorniciata da una fila di lucine intermittenti. Ma, ogni volta che si spegnevano, si mostravano sempre più refrattarie a riaccendersi, suscitando in me un’istintiva empatia. L’insegna diceva: PISCINA COMUNALE, e sotto: CHIUSO IL 24, 25, 26. Era quello, il mio posto.
Sono subito corso a comprarmi accappatoio e costume (il commesso era pronto al pacco regalo, quando gli ho detto che non ce n’era bisogno mi ha guardato con una faccia strana). Poi sono tornato indietro e, vincendo la resistenze di una segretaria che «nel mio interesse» suggeriva di cominciarlo il 27, ho sottoscritto un abbonamento al nuoto libero.
Per due giorni mi sono limitato a studiare la situazione: la segretaria abbandonava spesso e volentieri il bancone, non sarebbe stato difficile intrufolarmi senza essere visto. E così è andata, intorno alle cinque dell’antivigilia. Superato il tornello, ho aspettato che lo spogliatoio si svuotasse e poi mi sono chiuso dentro un armadietto. Sapevo che sarebbe venuto qualcuno a pulire, ma fortunatamente tutto si è risolto in una sommaria passata di straccio, che non ha richiesto più di qualche minuto. Trascorsa un’altra mezz’ora, ho sentito la saracinesca abbassarsi e finalmente il mio cuore si è sentito libero di battere un colpo. Mi ero chiuso dentro. O meglio, ero chiuso fuori dal Natale.
Per prima cosa ho eliminato i pochi festoni appesi sul muro: erano tristi, è vero, ma pur sempre natalizi. Poi ho cercato il quadro elettrico e ho scoperto l’esistenza di un faro che proiettava un raggio lunare lungo tutta la piscina. Seduto sul bordo della vasca, ho immerso i piedi nel suo tenue chiarore. Anche la temperatura dell’acqua mi è parsa perfetta.
Ho nuotato senza fretta per un’ora. Ogni sosta serviva a rifiatare ma anche a godere lo sciabordio delle onde. Onde minime, discrete, in pratica carezze. Il desiderio di qualcosa dipiù energico (un Natale da solo in piscina, in fondo, era un bello schiaffo alle convenzioni) mi spinse a tentare una serie di tuffi. Per lo più panciate, che sollevarono molti schizzi e qualche dubbio sul fatto che la mia propensione a farmi del male si fosse esaurita.
E se fossi andato fin lì per farla finita? Da molto tempo coltivo il sospetto di un altro me stesso che, su quello che sono, o che voglio realmente, la sa molto più lunga di me. Vile, dispettoso, ogni tanto compare, dice la sua, e poi
si ritira nell’ombra. Ho deciso di fare un po’ il morto – così, tanto per vedere come mi sentivo. Non male, in fondo.
Sono uscito e sono andato a fare la doccia. Nello spogliatoio credo di essermi addormentato sulla panca. Al risveglio ho sentito di nuovo il bisogno d’immergermi.
L’orologio appeso in piscina segnava le tre, suppongo di notte. Ho nuotato ancora. Ho nuotato più forte. Una forza così non l’avevo mai sentita, e mi sono spaventato un po’. Ma il giorno dopo la paura era passata e mi sono divertito a nuotare in apnea. L’azzurro del fondale ricordava il cielo, ho provato a respirare e mi è sembrato di avvertire presenza di ossigeno. Sono rimasto là sotto, gravitando su me stesso, fino a perdere la nozione del tempo. Quanto mancava? E soprattutto: a cosa? Pensare alla mancanza mi fece venire in mente tutto quello che non avevo. Non me ne importava niente. Di quello che avevo avuto e non avevo più, invece, m’importava, ma cercai di non dargli peso. Non ne avevo, in effetti: tra galleggiare e levitare non sentivo nessuna differenza.
Anche la differenza tra sonno e veglia, in quel liquido amniotico, sembrava essersi annacquata. L’incubo che era stato Natale si era trasformato in uno stato di quiete, dal quale mi attendevo tutto e niente. Sospensione, ecco la parola chiave… Sospesi di morire, cosa che andava avanti non so da quanto. E mentre l’eco di un petardo, nella strada, mi faceva tornare in mente che quella notte sarebbe nato un bambino – insieme alle mie speranze, a un viso di ragazza ormai dimenticato, e perfino a una vaga voglia di vivere – mi lasciai trasportare dalla corrente e decisi di rinascere anch’io.