La notte di Natale
«Ma dai, a nove anni ancora credi a Babbo Natale?», gli aveva detto l’amico. «Sono la tua mamma e il tuo papà a comprare i regali!», aveva insistito. «Sei proprio un fesso!», aveva concluso.
E così Diego si trovò a scrivere la letterina con l’umore sotto ai piedi e una gran voglia di rivelare la triste scoperta.
Si trattenne solo per un motivo: prendere in castagna i genitori.
Ovviamente, per dispetto, chiese tanti regali e un cavallo vivo.
Poi non ci pensò più, fino alla notte di Natale. Diego viveva in un paesino di montagna dove, in quei giorni di festa, tutto brillava di lucine e dove l’aria, gonfia di neve, profumava di cannella e cedri canditi. La sua casetta, dal tetto spiovente e le finestre agghindate, era la più antica e aveva dipinta, sulla facciata, una giovane Madonna con le sante a fare il girotondo. Quella sera del ventiquattro però, invece di sentire il cuore pieno di felicità, Diego avrebbe volentieri strappato le decorazioni alle vetrate e gettato l’albero con le palline colorate dalla finestra. Infatti, a cena non aprì bocca e andò a dormire presto, ché a stare in piedi a rimuginare sulle ingiustizie della vita proprio non ne aveva voglia.
Quando il buio avvolse la casa e fuori si spensero i canti, un rumorino sospetto arrivò all’orecchio di Diego, ancora sveglio per il troppo nervoso. «Salve!», disse al signore con la barba, che quatto quatto stava lasciando dei doni sotto il camino.
«Cosa ci fai in piedi?», chiese il tizio barbuto. Diego, che aveva riconosciuto gli occhi chiari del padre, ingoiò una risata e decise di stare al gioco.
«Volevo incontrarti! Non sai che cose brutte si dicono su di te».
«Che cosa mai diranno su di me?», bofonchiò il tipo. «Che non esisti e che sono i genitori a fare tutto!».
«Allora è un bene che tu mi abbia visto, così potrai raccontare in giro la verità!».
Diego avrebbe voluto tirargli quella barba finta, ma decise di approfittare della situazione per lamentarsi un po’, senza rischiare di essere rimproverato.
«I miei genitori sono cattivi con me… non posso giocare alla playstation fino a marzo. È molto lontano marzo, non trovi? Non potrebbero fare fino a febbraio… per esempio?». L’omone dalla pancia tonda, evidentemente piena di stracci e carta di giornale, si sedette sulla poltrona accanto al fuoco.
«Cosa avrai mai combinato per far arrabbiare la tua mamma e il tuo papà?», gli domandò grattandosi la barba.
«Niente! Vado bene a scuola e mi rifaccio il letto tutte le mattine», rispose Diego incrociando le braccia.
«Ma se ti hanno tolto il gioco ci sarà un buon motivo».
«No! Dicono che non penso ad altro, ma non è vero, lo giuro su Gesù bambino. Io penso a tante cose».
«A cosa, dimmi».
«Ai poveri della mensa. Alla signora Chiarcossi che ha perso il figlio e non vuole più uscire di casa. Alla mamma che sta sempre a dieta e al mio papà, che lavora troppo e… mi manca tanto».
Quest’ultima frase la proferì facendo tremare la voce.
«E lo sa il tuo papà che ti manca?». Diego lo guardò ben bene. Si avvicinò appena e tirando su col naso, sussurrò: «No, perché non voglio che si dispiace…». L’omone scosse la testa, facendo suonare il campanellino che aveva attaccato in cima al cappello rosso.
«Non avere paura di dire quello che provi…
Promettimi che domani prenderai il coraggio e gli dirai che ti manca tanto!».
«Ok… giuro». Tanto già l’aveva fatto. «E il cavallo? Me l’hai portato?». Quale scusa avrebbe trovato?
«Non ho letto del cavallo… In effetti c’erano delle cancellature. Forse i tuoi genitori non avrebbero saputo dove metterlo e l’hanno tolto dalla lista».
«Che furbacchione», pensò Diego. «Può essere», disse.
«Adesso devo andare», annunciò l’omone alzandosi a fatica. «E ora vai a letto che devo volare via, e questo è meglio che non lo vedi, o ti metti paura».
Diego alzò le spalle. «Non ho paura», asserì sfidandolo.
«Vai a letto», ripeté il tizio barbuto, con tono solenne.
Diego borbottò: il padre riusciva a essere severo anche vestito da Babbo Natale. Girò i tacchi e si avviò verso la camera dei genitori. Si sarebbe fatto trovare tra le lenzuola, accanto alla mamma. Entrò in punta di piedi, si avvicinò al lettone, spostò le coperte e… il cuore gli saltò in gola.
«Papà!».