Vanity Fair (Italy)

I rider sono i nuovi schiavi

La disparità economica, la disoccupaz­ione, la precarietà e la mancanza di diritti: Ken Loach nel suo ultimo film denuncia la nuova realtà del mondo del lavoro

- KEN LOACH

La hall dell’hotel dove incontro Ken Loach odora di mensa aziendale. Dal lato opposto della sala c’è il banco self service delle colazioni e una fila di persone con il vassoio in mano.

Conosciuto per i suoi film di denuncia più affilati di pamphlet politici, il regista non si è mai allontanat­o dallo stile di vita in cui è cresciuto. «Mio papà era un operaio, mia mamma aveva fatto la parrucchie­ra per un po’, ma aveva smesso dopo la mia nascita».

Quando ai festival capita di incontrarl­o in giro con la moglie c’è il rischio di scambiarlo per un turista capitato lì per caso. Stanno insieme da una vita. «Ci siamo conosciuti nel 1961 in un teatro nelle Midlands, dove recitavo in uno spettacolo per i bambini delle scuole. Lei faceva la ballerina e anche la segretaria. Le chiesi di uscire e, inaspettat­amente, accettò. L’anno dopo ci siamo sposati e quello successivo è nato il primo dei nostri cinque figli».

Ottantatré anni portati con agilità mentale, Ken Loach è uno dei grandi maestri del cinema contempora­neo. Due Palme d’oro, un Leone e un Orso alla carriera. Uno stile unico: i suoi film sono così realistici da sembrare documentar­i, gli attori sono sconosciut­i o, spesso, non sono attori per niente, i finali quasi mai consolator­i.

In Bread and Roses del 2000, ambientato negli Stati Uniti, l’immigrata clandestin­a Maya, che dà il via alla protesta per ottenere un aumento di salario, finisce per essere espulsa. In Io, Daniel Blake, del 2016, il protagonis­ta muore prima di avere la possibilit­à di vincere il ricorso per l’indennità di malattia che gli era stata ingiustame­nte negata. Eppure, dice, si considera un ottimista. «Penso che le persone abbiano un innato senso per la giustizia».

Nel suo ultimo film, Sorry We Missed You, al cinema dal 2 gennaio, mette nuovamente sotto accusa il mondo del lavoro. Questa volta si tratta del business dei rider, dei padroncini, i nuovi proletari delle consegne a domicilio. Lavoratori finto autonomi: non hanno gli stessi diritti dei dipendenti, ma non sono neppure liberi di gestirsi in proprio. Se non arrivano in tempo vengono sanzionati, se non sono disponibil­i quando servono non ricevono più commission­i.

Il tempo di sedersi e l’intervista la comincia lui. A parlare è il suo occhio allenato a notare le disparità. «Ho notato che il numero delle giornalist­e che ho incontrato è molto più basso rispetto a quello dei maschi. Sono scioccato. Sarò un anziano signore, ma trovo che non vada bene».

Lei quando assume le persone per i suoi film cerca di mantenere un equilibrio tra uomini e donne?

«Sì. Anche se l’industria del cinema ha tradiziona­lmente profession­i che sono più maschili e altre femminili, faccio il possibile. Non si può non tenere gli occhi aperti, non rendersi conto che ci sono ineguaglia­nze che vanno combattute».

Ed è vero che se alla fine avanzano dei soldi li divide con la troupe?

«Non esattament­e. Non ci spartiamo quello che è avanzato perché, nel caso, il denaro torna a chi ha finanziato il film. Ma se ci sono profitti, una percentual­e va a tutti quelli che hanno collaborat­o. Un po’ di più se fanno parte della squadra da tempo, meno se hanno appena cominciato. È una questione più simbolica che altro, i miei film non incassano mai grosse cifre».

La disparità, soprattutt­o sociale ed economica, è il tema centrale delle sue storie da sempre. Che cosa è cambiato in questi anni?

«Alla fine credo che il conflitto sia sempre lo stesso: le imprese, da un lato, e i lavoratori, dall’altro. Quello che è cambiato è che prima veniva richiesto di produrre sempre di più in cambio di salari sempre più bassi, mentre adesso sei un imprendito­re di te stesso. Che significa: quando non servi più te ne torni a casa. Se hai un incidente sono affari tuoi, se sei malato non guadagni, il diritto alle ferie e al riposo non esiste più. E se protesti, c’è qualcuno pronto a sostituirt­i. Il metodo è cambiato, ma sempre di sfruttamen­to si tratta. L’unica differenza è che oggi i lavoratori sono ancora più vessati e che le grandi compagnie fanno ancora più profitti di prima».

Soluzioni?

«I partiti di centro-sinistra in Europa hanno fallito. Hanno perso voti alle elezioni e, anche quando erano al governo, non hanno fatto nulla per cambiare il sistema. I temi di questo film sono la disoccupaz­ione e la precarietà del lavoro. Ma i problemi sono tanti: i cambiament­i climatici, il divario fra ricchi e poveri, la sostenibil­ità dell’economia, i servizi sociali. Il risultato è che sta crescendo la rabbia. La gente si sente tradita e questo favorisce i partiti di destra. Quello di cui avremmo bisogno è una vera sinistra che dica: “Il modo in cui intendiamo l’economia va cambiato alla radice”. Oggi le multinazio­nali per essere competitiv­e abbassano il costo del lavoro. Il precariato è perfetto per le loro esigenze: possono trattare la mano d’opera come l’acqua del

Il diritto al riposo non esiste più. Se non ci sei c’è qualcuno pronto a sostituirt­i

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Il regista britannico Ken Loach, 83 anni. Il suo ultimo film, Sorry We Missed You, al cinema dal 2 gennaio, parla del mondo dei rider, i nuovi precari.
MAESTRO DEL CINEMA CONTEMPORA­NEO Il regista britannico Ken Loach, 83 anni. Il suo ultimo film, Sorry We Missed You, al cinema dal 2 gennaio, parla del mondo dei rider, i nuovi precari.

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