CAPITOLO 2: ALESSANDRO
Godot non è si è fermato a Istanbul: «Ferzan lo aspettavo da anni. Nel 2000 ne avevo 28 e recitavo a teatro in Dramma della gelosia di Gigi Proietti ispirato al film di Scola. Özpetek venne a vederlo e mi diede un biglietto da visita. “Sei molto bravo, mi piacerebbe parlarti, chiamami presto”. Un po’ per carattere e un po’ per timidezza, non mi azzardai. Da sempre penso che esista un momento giusto in cui le cose devono accadere. All’epoca forse non ero ancora pronto e col senno di poi penso di aver fatto bene a non aver fatto quella telefonata». Edoardo Leo ne ha ricevuta invece una fuori tempo massimo e si è ritrovato, complice La Dea Fortuna, nel luogo in cui le spezie si uniscono alle visioni e il regista turco appronta pranzi e dialoghi preparatori: «Ferzan non mi ha fatto leggere la sceneggiatura, ma mi ha raccontato tutto il film nel salotto di casa sua. La storia di una coppia che è in crisi, che stenta a sopportarsi e che vede la propria routine sconvolta dall’arrivo improvviso di due bambini. Lui parlava e io gli vedevo brillare gli occhi. “Spero ti piaccia” mi ha detto e a me, a sentir parlare Özpetek così, veniva quasi da ridere. Un po’ perché avevo deciso che avrei interpretato il film ben prima di varcare la porta dell’appartamento e un po’ perché ripensavo all’epoca, non troppo lontana, in cui nonostante l’ostinazione, nel mestiere che faccio me la passavo veramente male».
Cosa ricorda di quell’epoca?
«Le camere quadruple negli alberghetti, i volti di chi aveva le tasche vuote come me, le diecimila lire che io e altri amici ci prestavamo vicendevolmente a ondate, l’ostinazione nel ripetermi che avevo scelto un lavoro che amavo e che lamentarsi era vietato».
E ci credeva?
«Certe cose te le racconti per tirare avanti, ma in qualche modo devi crederci per forza perché altrimenti la realtà ti schiaccia. Fino a pochi anni fa la mia carriera non era stata certo quella che tocca in sorte a un attore celebrato. Faccio il mio lavoro da 26 anni: gli ultimi sei sono stati meravigliosi, gli altri 20 hanno rappresentato un percorso complesso in cui sono stato attento soprattutto a una cosa».
A cosa?
«A non sprofondare nel patetismo. Il senso del ridicolo mi ha sempre spaventato. Non è detto che tu debba avere necessariamente successo, ma devi saperti costruire un tuo spazio, provare a essere coerente, mettere in scena o scrivere cose che ti realizzino. Se non ci fossi riuscito, non credo che oggi, a 47 anni, sarei ancora sul palco. Forse avrei fatto altro. E comunque, il mio lavoro vive di incertezze. Sentirsi arrivati è sciocco e pericoloso. I cavalli, come nelle corse, si giudicano all’arrivo e al mio pubblico, in teatro, lo dico sempre: quest’anno festeggio 26 anni di gavetta. Mi sono emancipato da poco, tornare indietro repentinamente è un’ipotesi che non escludo».
Li festeggia con La Dea Fortuna e con un ruolo difficile.
«Interpreto Alessandro, un idraulico felice di fare il suo lavoro. La sfida più difficile era legare una figura archetipica, legata nell’immaginario popolare alle barzellette più viete sulla seduzione femminile e alle commedie sexy degli anni ’70, a un uomo che ha fatto una scelta diversa. Per trovare la chiave giusta mi sono affidato a Ferzan. Ho chiesto consiglio a lui».
Come ci ha detto, al centro del racconto c’è una crisi coniugale.
«Nel film balla soprattutto una questione spartiacque che vive all’interno di qualsiasi coppia, anche etero, senza figli. Una questione che ha a che fare con l’anagrafe e con ciò che sogni dalla tua vita. Per tutti arriva il momento in cui devi capire se con la persona che ti sta accanto vuoi passare il resto dell’esistenza oppure no. Arturo e Alessandro godono del collante di un amore che con gli anni è diventato fraterno, ma soffrono la tipica crisi di chi ha visto progressivamente spegnersi desiderio e attrazione. Devono trovare un progetto. Una motivazione per andare avanti».
Nella loro routine improvvisamente irrompono due bambini.
«Che dovrebbero fermarsi solo per qualche giorno e che invece restano più del previsto e riescono in un piccolo miracolo laico. Distolgono lo sguardo di Arturo e Alessandro dall’infelicità di coppia e li costringono a posarlo su di loro. Così Arturo e Alessandro finalmente guardano al prossimo e non più soltanto al loro legittimo, ma piccolo egoismo. Iniziano a occuparsi dei bisogni di qualcun altro e in questo movimento inatteso scoprono l’uno dell’altro cose che neanche sospettavano. Cominciano a vedersi migliori di quel che sono e valutano l’imprevisto come un’occasione per crescere».
Per la prima volta, senza averlo mai neanche immaginato, riflettono sulla paternità.
«Arturo scopre che il suo compagno ha un innato e incredibile senso paterno. All’improvviso mi vede cambiato e capisce che potrei essere padre senza alcun problema. Lui ha un istinto diverso dal mio, ma nonostante ciò, la nuova consapevolezza scardina comunque dei meccanismi e apre delle porte di comprensione reciproca che all’interno del ménage erano chiuse da moltissimo tempo».
Cosa c’è di speciale nella Dea Fortuna?
«L’idea di un amore universale che non fa differenze di genere. Se Arturo e Alessandro si chiamassero Gianna e Francesco per la narrazione sarebbe identico. Ferzan è riuscito a intercettare alla perfezione i meccanismi di una coppia
logora, i litigi inutili, la fatica di inventare ogni giorno il futuro insieme. Ma dobbiamo dimenticarci di mettere l’aggettivo. Etero. Omo. Basta. È solo amore. Il resto è definizione inutile. Curiosità morbosa. Sa cosa mi chiedono alcuni amici?».
Cosa le chiedono?
«Se nel film si vedono scene di sesso tra me e Stefano. Mentre esiste un erotismo che senza immagini esplicite risulta molto eccitante, visto l’eccessivo grado di finzione, poche cose mi annoiano più del sesso al cinema. Se quelle scene ci siano realmente o meno non lo dirò neanche a lei. Di fronte a un lavoro così complesso, mi sembra la più inutile delle curiosità da soddisfare».
Torniamo al film. Nella noia della coppia a volte si affaccia l’acre sapore del compromesso.
«Dipende sempre, nel film come nella vita reale, dal livello del compromesso. È un tema che attraversa i nostri personaggi, che lavora dentro ognuno di noi e che Ferzan, tra le righe, analizza con attenzione assoluta e con una delicatezza feroce. Senza fare sconti. Anche quando è romantico, Özpetek non è mai indulgente».
Lavorare per la prima volta con Özpetek cosa le ha restituito?
«Il senso di un’immersione senza pause in un mondo magico. Con Ferzan o è tutto o è niente. Sei con lui per 24 ore al giorno. Sa perfettamente quel che vuole e nonostante ciò, ti coinvolge nel processo creativo del film. Ti telefona alle 6.35 del mattino per esternare un dubbio su una scena e poi la riscrive in tempo reale per renderla migliore. Sul set della Dea Fortuna è accaduto tante volte».
Cosa suggerisce un atteggiamento simile secondo lei?
«Credo sia il sintomo più evidente di una ricerca espressiva che non trova la propria soddisfazione fino a quando non ha esplorato ogni possibile strada. Ferzan non si piega alla prima ipotesi, ma insegue quella più efficace. È un atteggiamento che riconosco perché quattro film da regista, anche se diversi da quelli di Ferzan, li ho girati anche io».
La Dea Fortuna parla soprattutto d’amore. Si ricorda la sua prima storia?
«Risale ai miei sedici anni, in un villaggio vacanze. Era un rapporto soprattutto epistolare. Io e quella ragazza ci scambiammo tante lettere. Quelle ricevute, forse, da qualche parte in soffitta ci sono ancora».
Ha sempre scritto fin da quando era ragazzo?
«Scrivevo tanto anche nell’adolescenza perché mettere le parole sul foglio, nel tempo, mi ha aiutato a conoscermi meglio. Dirlo oggi fa sorridere, ma sono stato il primo Leo a laurearsi in assoluto. Vengo da una famiglia di stirpe contadina: alla laurea a casa non aveva mai pensato nessuno».
Tesi su Carlo Emilio Gadda.
«In sociologia della letteratura, non in ingegneria meccanica, ma con lode. Una soddisfazione che non mi può togliere nessuno. Rappresentò una forma di puntiglio e una sorta di
Nel film vengono raccontati i meccanismi di una coppia logora, i litigi inutili, la fatica di inventare ogni giorno il futuro insieme
riscatto perché non sopportavo l’idea che un attore dovesse essere per forza ignorante. Scrivere è stato anche altro. Il modo di incanalare positivamente una frustrazione tangibile. Una maniera per aggirare i tanti rifiuti che all’inizio del mio percorso mi vedevo sbattere in faccia come fossero porte. All’epoca in cui i grandi registi non mi chiamavano neanche per sostenere un provino decisi di scrivere con un amico, Marco Bonini, il mio primo film».
Diciotto anni dopo vinse molti premi.
«Ma nessuno voleva affidarcelo. “Bello il copione, vendetecelo”, dicevano i produttori. Dio solo sa se io e Marco avevamo bisogno di quel denaro, ma facemmo un patto sacro: “Vendiamo i diritti solo se lo fanno fare in prima persona a noi”. Abbiamo tenuto duro. E siamo stati anche fortunati».
Com’era la sua frustrazione?
«Una frustrazione composta, ereditata da mio padre. È composto papà, anche nei momenti peggiori. Mi ha insegnato a non invidiare, a non denigrare, a non godere per le disgrazie degli altri. La frustrazione per me è stata un motore. Un modo per avanzare e non per retrocedere perché le dico una cosa: se provi astio, alla lunga, ti cambia anche la fisiognomica. Ti si disegna una faccia diversa. E io una faccia torva e ingrugnita, una faccia da stronzo, non volevo averla».
Ha mai avuto la tentazione di attribuire un momento cupo a chi la circondava e magari aveva più fortuna professionale di lei?
«Mai. Ogni tanto sento dire che nel cinema italiano lavorano sempre le stesse persone ma se guardo a quei nomi: Cortellesi, Mastandrea, Favino, Foglietta, Papaleo o lo stesso Giallini, vedo anni di fatica e di strade viste dal basso. È gente che piuttosto che fare un film brutto restava a casa. Quindi anche se è strano da dire, la meritocrazia nel nostro cinema esiste. È un dato di fatto».
Che film ha cercato di fare in questi anni?
«Dei film che raccontassero la mia generazione in tempo reale. Non è stato semplice: narrare senza avere la distanza dei decenni che si posano sugli avvenimenti è sempre un’acrobazia. È vero che ogni tanto, penso soprattutto a Perfetti sconosciuti di Genovese, vengono fuori lavori di una contemporaneità agghiacciante, ma è vero anche che il cinema è un media lento per definizione. Ipotizzi una storia, la metti in piedi e nel migliore dei casi tra il lampo originario e la realizzazione trascorre un anno e mezzo. Per questo è importante trovare temi assoluti che non invecchino. Ferzan è stato abile e ha scelto la crisi di coppia: un argomento più o meno immutabile da secoli».
Perché andare a vedere un’opera di Özpetek?
«Perché ha uno sguardo originale sulle cose. Sarebbe come domandare perché si comprano i dischi di De Gregori o Springsteen. Li acquisti perché la visione del principe o del boss sono diverse da tutte le altre».
Che mestiere sente di fare Edoardo Leo?
«Un mestiere in cui sicuramente non salviamo vite umane, ma cerchiamo di far ridere ed emozionare. Quando accade provo un piacere indescrivibile che non ha niente a che fare con la voluttà dell’applauso. Sono sempre stato più comodo sul palcoscenico che in platea perché ho questa necessità infantile: voglio stare al centro del palco».
Si assolve per il desiderio?
«Che posso dirle? C’è qualcosa di eroico e di miserabile al tempo stesso. Lo faccio perché altri non hanno il coraggio di farlo, ma non sono rare le volte in cui torno a casa, mi guardo allo specchio e mi dico: “Ma avevi veramente bisogno di essere sul palco sotto i riflettori?”». (sorride)
Se si guarda indietro prova tenerezza o orgoglio?
«Nessuna delle due sensazioni. Si cambia e ovviamente neanche io sono più il ragazzo che aveva 25 anni, faticava a pagarsi una pizza e si affacciava in scena quasi intimidito. Come le ho detto sono cresciuto in una famiglia normalissima e all’inizio pensavo di non aver sofferto abbastanza per fare il regista, ma con gli anni mi sono dimenticato anche di quel falso problema».
Il suo lavoro ha a che fare con il narcisismo?
«Sicuramente. Alla base, se stai in scena, hai un problema con il tuo ego. Io ho cercato di sublimarlo raccontando storie che non riguardano me stesso che è poi la stessa attitudine che ho nella vita di tutti i giorni. Raccontarmi mi atterrisce, ma se hai una storia da dirmi ti ascolto e ti ascolterò sempre con le antenne dritte. Al “ciao come sto?” preferisco il “ciao come stai”».
Come mai?
«Perché temo sempre di essere noioso. Mi annoiano sempre tutti quelli che dicono troppe volte “io”. Ho sempre il timore di cadere nel tranello e quando mi capita mi pongo una domanda molto precisa».
Quale?
«Oddio, non è che sto rompendo i coglioni a tutti?». Pagg. 58-59 e 70 per Accorsi: giacca di pelle e T-shirt, BRIONI. Orologio, JAEGER-LECOULTRE. Per Leo: camicia di pelle, JACOB
COHËN. T-shirt, GIORGIO ARMANI. Orologio IWC SCHAFFHAUSEN.
Pag. 60, 64 e 69 per Accorsi: giacca da smoking e camicia, BRUNELLO
CUCINELLI. Orologio, JAEGER-LECOULTRE. Per Leo: giacca e pantaloni da smoking, camicia e cravatta, GIORGIO ARMANI. Hanno collaborato Martina Antinori, Michele Potenza e Arianna Beachi. Grooming per Accorsi Milena Digirolamo. Grooming per Leo Patrizia Delcuratolo using Qstudio make-up Rp. Set designer Charlotte Mello Teggia.