L’IMMAGINE PROIBITA
orrendo assassinio di George Floyd ha innescato, tra tumulti e sommosse, la corsa all’abbattimento di statue di schiavisti e mascalzoni (compreso Winston Churchill), il ritiro di Via col vento dove la domestica Mamie dice «sì, badrone», il processo post-mortem a Indro Montanelli per pedofilia e stupro, avendo sposato agli inizi del ’900, durante la guerra, una eritrea dodicenne, fino a toccare il climax con il ritiro dai negozi svizzeri dei cioccolatini Moretti. Cronache che stanno facendo versare fiumi di inchiostro ai sapientoni dell’orbe, indice che si sta tornando all’anormalità cerebrale del passato pre-Covid, ma per nulla sorprendenti per chi non confonde la cronaca con la Storia. Da Adamo ed Eva in poi, la cancellazione del passato è sempre esistita. Il motivo è semplice: noi pensiamo quello che vediamo. I nostri maestri sono gli occhi. Ecco perché il trionfo dell’immagine è il «pensiero» che mette più paura.
NellA’ ntico Egitto non era raro che le statue dei faraoni elevati al rango di divinità venissero distrutte dai loro successori al trono. I romani la chiamavano damnatio memoriae, cioè cancellare qualcuno dal ricordo della storia. Gli ebrei distruggevano gli idoli delle popolazioni pagane (i Lari e i Penati); anche i cristiani hanno abbattuto statue ed edifici greci e romani.
Ogni religione ha sempre distrutto gli idoli e i templi delle religioni precedenti. Nella Bibbia c’è scritto poi chiaramente: «Non farai immagine né idolo a somiglianza di uomo». E visto che il destino dell’essere umano è quello di
L’riconoscersi nell’immagine, contro tale culto si oppose l’iconoclastia, dal greco «rompo l’immagine», un movimento religioso che nell’Impero bizantino avversò, nei secoli VIII e IX, l’uso delle sacre immagini.
Fateci caso: solo la cultura occidentale ha una storia dell’arte. Le altre, dall’ebraismo all’islamismo, sono aniconiche, cioè fanno a meno dell’immagine, non usano rappresentare Allah e Maometto come una figura umana. Perché le immagini sono rappresentazioni e in quanto tali possono essere ingannevoli, fake si direbbe oggi. Dio, poi, che è tutto, non può essere ridotto a una figura, e inizialmente anche i cristiani evitavano di farlo. Cristo veniva rappresentato con un segno, poi con un pesce stilizzato, poi diventa l’agnello, quindi spunta la croce e alla fine diventa una figura vera perché Gesù è Dio incarnato, e solo allora diventa possibile rappresentarlo. L’iconoclastia caratterizza anche le grandi ideologie totalitarie del XX secolo. Dalla Rivoluzione d’Ottobre del 1917, che portò alla distruzione di statue raffiguranti gli zar, al nazismo che organizzò un simbolico falò di libri proibiti e la messa al bando di pitture e sculture che Hitler definiva «arte degenerata».
Ma è il politicamente corretto («questo profilattico contro la cultura», scherzava Baudrillard), che oggi ci riporta all’iconoclastia. E tutto dipende dal fatto che le immagini sono decisive nel definire la nostra identità sociale, e non solo quella religiosa. Sulla tastiera dei computer c’è un tasto che ci piace tanto: delete. Il piacere del cancellare. Con la rivoluzione digitale siamo passati dalla iconoclastia religiosa, politica, a quella privata. Abbiamo la possibilità di «assassinare» qualsiasi cosa, dal ristorante attraverso TripAdvisor all’ex che ci ha mollato, dal capo che ci tiranneggia all’avversario politico. Possiamo abbattere anche la statua di noi stessi, se si pensa a tutte le applicazioni che ti cambiano gli occhi, la bocca, l’ovale del viso, i capelli… cioè, si distrugge ciò che non ci piace. Ecco perché non bisogna alzare il sopracciglio davanti a ciò che sta accadendo oggi sulle piazze: l’iconoclastia è dentro di noi.