Vanity Fair (Italy)

ETERNO SPETTACOLO

Via Veneto e le dive ai tavolini, la Fontana di Trevi e Anita Ekberg, i caffè e i colori. Quando La dolce vita ha trasformat­o ROMA in un’aspirazion­e universale

- Di RAFFAELE PANIZZA

Quando nel boom economico gli americani sbarcavano a Roma, si stupivano sempre di trovare via Veneto in pendenza, con gli scooter dei paparazzi a sfrecciare in discesa e ad arrancare in salita. La strada «delle dive stravaccat­e ai tavolini dei caffè», come la descriveva Federico Fellini, l’avevano conosciuta grazie alla Dolce vita, il capolavoro presentato il 4 febbraio del 1960 al cinema Fiamma di via Bissolati, lo stesso dove si tenevano le premiazion­i per i David di Donatello. Tutto quanto però era stato ricostruit­o al Teatro 5 di Cinecittà, senza l’inclinazio­ne originale della via, lasciando alla presa diretta solo un paio di campi lunghi: dalle insegne del Café de Paris dove cercavano notorietà le attricette a quelle di Doney e montaggi. E poi i pini marittimi di villa Elia, frusciante di passerotti dalle finestre del suo attico in via Archimede 141/a.

In via Veneto, al piano nobile dell’Hotel Excelsior, aveva un appartamen­to il grande produttore Giuseppe Amato, ex attore del cinema muto che aveva finanziato pellicole come Roma città aperta e Don Camillo, e convinto Vittorio De Sica a tentare l’avventura dietro la macchina da presa. In quella suite affacciata su uno spettacolo umano irripetibi­le aveva letto quella sceneggiat­ura considerat­a sconclusio­nata, e che Dino De Laurentiis non voleva produrre. Ma lui l’aveva amata fino all’ossessione, tanto che in una notte insonne aveva preso l’automobile e guidato fino a Pietrelcin­a per incontrare

STORIA DI UN CAPOLAVORO

Da sinistra: al Festival di Cannes nel 1960, Giulietta Masina con l’attestato di vincita, Federico Fellini con la Palma d’oro e il produttore della Dolce vita Giuseppe Amato; un telegramma di un Fellini arrabbiato ad Amato; Amato con Gregory Peck.

del Caffè Strega, rifugio di re, industrial­i e cinematogr­afari. Così come ricostruit­a era la scalinata verso la cima della Cupola di San Pietro. Mentre originali erano le riprese delle Terme di Caracalla, del Parco degli Acquedotti, della spiaggia di Passoscuro e della Fontana di Trevi, dove Anita Ekberg immerge le gambe bianche e con un rivolo d’acqua battezza uno smarrito e incantato Marcello Mastroiann­i. Una sequenza che ha trasformat­o Roma, che già era un sogno, in una promessa di miracolo e un’aspirazion­e universale. Ocra nella realtà ma ritratta in argento e nero grazie a una pellicola speciale. E che il regista considerav­a il suo appartamen­to, dove le strade erano corridoi, le piazze stanze, le ville sulla Cassia un dehors, e la vista immensa: i suoi orizzonti erano piazza dei Santi Giovanni e Paolo, che ammirava dagli studi sul colle Palatino dove realizzava i

Padre Pio e farsi benedire il progetto: «Si fissarono in silenzio per dieci minuti», ricorda Alvaro Marconi, che lo accompagnò nell’avventura, «ne ricevette l’assenso e si mise a singhiozza­re, non avevo mai visto un uomo piangere così».

Tutte storie raccontate nella Verità su «La dolce vita», il documentar­io prodotto da Gaia Gorrini e diretto da Giuseppe Pedersoli, figlio di Bud Spencer e nipote da parte materna del produttore della Dolce vita Giuseppe Amato. Che attingendo da una mole infinita di materiali, ne ha ricostruit­o la genesi travagliat­a. È lo stesso Mastroiann­i a raccontare la confusione tra sogno e realtà che da decenni il film, e da millenni la città eterna, suscita in tutti: «La dolce vita l’ho vissuta, ma l’ho vissuta recitando: sei mesi di totale abbandono e felicità. Come se uno degli eroi immaginati da Fellini, lo fossi stato per davvero».

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