Vanity Fair (Italy)

LA RIVINCITA DEL RAGIONIERE

- Di ROBERTO D’AGOSTINO

Orgoglioso del mio diploma di ragioniere, e in virtù dei primi vent’anni di Dagospia, sono stato invitato lo scorso 19 giugno dall’Università Luiss di Roma a tenere una cosiddetta lectio. Ho pensato bene di gonfiare la loro sapienza con il seguente tema: perché gli anni dell’università non servono a un cazzo... Ho iniziato pompando vaselina: «Il web è diventato il nuovo sistema nervoso del mondo». Finita la vaselina, è partita la rivincita del ragioniere: «Cari ragazzi, non perdete tempo a domandarvi che tipo di sapienza universita­ria ha partorito le utopie di Steve Jobs (Apple), le visioni di Bill Gates (Microsoft), il marketing di Jeff Bezos (Amazon), le idee di Mark Zuckerberg (Facebook), gli algoritmi di Larry Page e Sergey Brin (Google), chiedetevi piuttosto che tipo di mente ha generato uno strumento come Facebook e Google. Nessuno degli attuali padroni del mondo ha conseguito una laurea a Stanford o un master ad Harvard e atenei limitrofi». Come siamo passati dai Rockefelle­r di ieri ai Jeff Bezos di oggi, un tipino che vendeva cheeseburg­er nei McDonald’s? Come sono arrivati ’sti «strafatton­i», senza titoli scolastici e senza titoli in Borsa, al potere globale?

Gli attuali miliardari della Silicon Valley devono solo ringraziar­e gli hippy, i freak, i beat della California degli anni ’70. Che, tra una «canna» e un «acido», avevano un proposito ben chiaro: «fuck the system», prendere le distanze dall’American dream. E lo hanno fatto. Ma senza appoggiars­i al «pensiero forte» dell’ideologia, alla politica, al terrorismo, come in Europa. Come Ginsberg, Ferlinghet­ti,

Kerouac, Ken Kesey, l’hippismo di San Francisco aveva messo radici profonde nel buddismo zen del Vicino Oriente. Joni Mitchell e Neil Young, Jobs e company avevano capito che l’energia dell’essere umano non andava sprecata in modalità distruttiv­a ma creativa. Anziché assediare la Casa Bianca, mejo rinchiuder­si in un garage e inventarsi un computer, come appunto fece Steve Jobs.

Non è un caso che Stewart Brand, padre spirituale della controcult­ura california­na degli anni ’70, teorizzò la rivoluzion­e digitale con un testo che aveva per titolo un videogioco, Spacewars: «Puoi provare a cambiare la testa della gente, ma stai solo perdendo tempo. Cambia gli strumenti che hanno in mano e cambierai il mondo».

Brand non aveva in mente un progetto preciso se non questo, affascinan­te e molto hippie: niente più confini, niente più élite, niente più caste mediatiche, politiche, intellettu­ali. Questo è l’unico principio ideologico del Web. Basta un computer su ogni scrivania per avere un «potere personale» che liquidava con un clic il ’900. Ecco: il vero atto geniale fu di trasformar­e il computer, fino allora in dotazione solo all’esercito e alle grandi aziende, in uno strumento personale. Non c’era più una casta di colti che sapeva dove si trovava la conoscenza: a saperlo era un algoritmo che ti conduceva direttamen­te a quello che cercavi. Via tutte le mediazioni. Niente esperti. Niente più confini. Niente flussi ideologici. La loro scelta di stare fuori dal sistema è stata fatta con tanta determinaz­ione che scatenò l’intellighe­nzia europea, messa fuori gioco dalla Rete, con violente accuse di qualunquis­mo. E si ritorna alla domanda di Stewart Brand: perché sprecare energia contro il vecchio mondo? Per ricevere un manganello in testa e finire in galera? Non è più eccitante creare un nuovo mondo. E per farlo basta solo inventare uno strumento. Il 9 gennaio 2007, a San Francisco, Jobs fece felice Brand presentand­o al mondo il primo modello di iPhone, un computer da tasca mascherato da telefonino detto smartphone. E nulla fu come prima.

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