Vanity Fair (Italy)

ABBIAMO VISTO COSE CHE VOI UMANI

Sono la «coppia» più famosa dei live: GIOIA E GIULIO KOELLIKER da decenni garantisco­no, dietro le quinte, che i concerti a cui andiamo siano un’esperienza strepitosa. Evitandoci di sapere di asciugaman­i e dentiere...

- Di SILVIA BOMBINO

MUSICA, CHE PASSIONE

Giulio Koelliker, 59 anni, Gioia D’Onofrio, 43, e il gatto Ettore, nella loro casa fuori Torino. Sposati dal 2008, si sono conosciuti al festival Gods of Metal nel 2007.

runo, Giulia, Bianchino Luigi, Orazio e Ettore, dopo molte lune, hanno capito. I due umani che vedevano di rado si sono installati in casa loro. Giulio Koelliker e Gioia D’Onofrio, marito e moglie da 12 anni, passano dieci mesi su dodici fuori casa, lui come direttore di produzione, lei come tour manager. Tradotto: uno fa sì che tutto quello che riguarda lo show dal vivo si realizzi, tra progetto, budget e fornitori, l’altra risolve tutti i problemi che il «carrozzone» come

– lo chiamano comporta: dalla sistemazio­ne dei familiari al seguito

– agli asciugaman­i per tutta la crew. E anche se tornano dai loro cinque gatti appena possono, forse non hanno mai vissuto nella loro casa, nel Parco La Mandria, tanto quanto adesso, ora che sono rimasti «bloccati» dal Covid-19.

Qualche giorno prima dell’intervista un nubifragio ha devastato l’area. Su Facebook Gioia chiede: «Quanto manca alla fine del 2020? Chiedo per la mia gemella buona». Parte della casa si è allagata in cantina si sono salvati gli scatoloni pieni

– di pass ma si tratta di un intoppo che prende, appunto, con

– ironia. «Sono Gioia di nome e di fatto, quando lavoro però sono una rompiscato­le, quindi gioco dicendo che ho una sorella gemella, Nicoletta, il mio secondo nome, che è quella cattiva».

Gennaio e febbraio per chi fa i live sono mesi più scarichi, ma Giulio e Gioia erano già al lavoro sulla pre-produzione del tour di Marracash e di Gianna Nannini, Thom Yorke, Lana Del Rey, il festival i-Days… «Quando hanno chiuso Codogno mi sono subito spaventato», spiega Giulio. «Nelle settimane prima avevamo incontrato per lavoro moltissima gente, quindi ci siamo chiusi in casa misurandoc­i la febbre due volte al giorno, come ci avevano consigliat­o degli amici medici. Abbiamo messo in piedi tutte le consegne a domicilio e siamo entrati in lockdown. Saremo gli ultimi degli ultimi a tornare al lavoro».

BAvete pensato a un piano B? Giulio:

«I nostri show si possono fare solo in un modo: la vibrazione e le emozioni non passano in altri modi. Per ora ho pensato di aiutare i nostri colleghi e il nostro settore, quindi è nata l’iniziativa Squadra Live, che vuole raccoglier­e fondi e salvaguard­are la categoria».

«Io non mi sono ancora posta la domanda».

Gioia:

Adesso che non lavorate, come va? Gioia:

«Mi manca tutto. Amo il mio lavoro, dalle cose piccole a quelle grandi. Come l’emozione di accompagna­re Bruce Springstee­n sul palco e sentire il boato dello stadio che esplode... Ho pianto».

«Io lo faccio da trent’anni, ma mi hanno sempre detto: che bello, ti occupi di musica, ma di lavoro cosa fai?».

«Certo, è un lavoro, vorrei ribadirlo. Non ho mai pensato un minuto della mia vita che non fosse un lavoro vero, forse è solo meno conosciuto. Io di metalmecca­nica non so nulla, ma non è per questo che dico che non sia una vera occupazion­e. Alcuni credono che siamo in giro in vacanza. La verità è che siamo in smart working da sempre, al cellulare 24 ore su 24».

Giulio: Gioia: Se nessuno capisce cosa fate, voi quando lo avete capito e avete deciso di farlo?

Giulio:

«Abbiamo due approdi diversi, perché io sono più grande rispetto a Gioia… Sin da piccolo ero un appassiona­to di musica. Quando avevo sedici anni non c’erano concerti di artisti stranieri in Italia, c’era la contestazi­one, quindi partivo con i pullman tipo carro bestiame da Torino e andavo all’estero, a vederli. Mi ricordo che il mio primo concerto fu quello dei Genesis, era il 1975, c’era ancora Peter Gabriel. Guardando le persone che lavoravano sul palco pensavo: come sarebbe bello essere tra loro. Invece mi sono iscritto a Giurisprud­enza perché mio padre era avvocato, anche se poi ho lasciato a un esame dalla fine. Contempora­neamente avevo amici che suonavano, io non ero bravo con il basso e ho imparato a fare il fonico. Sono passato ai live e ho girato il mondo in tour con Paolo Conte per cinque anni, da cui l’idea di occuparmi di produzione».

«Io mi sono laureata in Conservazi­one dei beni culturali a Udine, e sono entrata a lavorare al Museo Civico di Bassano del Grappa perché volevo fare ricerca nell’arte. Quando però mia madre si è ammalata ho dovuto rallentare. Una volta degli amici, per tirarmi su il morale, mi hanno portata al Gods of Metal, a Milano. Qui ho incontrato Giulio, che già lavorava in produzione, e gli ho chiesto: puoi esaudire un desiderio?».

«È stato facile farla salire sul palco per fare una foto con Ozzy Osbourne...».

«A me non è che interessas­se molto, a dire la verità, ma volevo fare invidia, quella proprio bassa, a degli amici. Però io questo signore lo trovavo simpatico, e dopo poco ci siamo messi insieme. Ho lasciato il mondo dell’arte e tutte le mie ambizioni: ma è la vita che funziona così, e la mia filosofia è che bisogna adattarsi sempre con il sorriso».

«Intanto l’ho fregata: ho iniziato a chiederle aiuto sul lavoro, e l’ho tirata dentro».

«Prima spostavo grandi opere d’arte, ora sposto persone: non ci sono differenze, ci vuole amore in entrambi i casi».

Gioia: Giulio: Gioia: Giulio: Gioia: Non esistono tensioni, artisti viziati? Gioia:

«Bisogna tenere conto che si sta fuori una media di 280 notti l’anno, tra alberghi, treni, aerei. Per quanti agi tu possa avere non sei a casa tua. Ricreare routine e luoghi per gli artisti è fondamenta­le per ridare normalità a situazioni che normali non sono. Dopodiché ci sono stati incontri umani che non hanno funzionato e mi sono detta: “Ok, è lavoro”».

«Io dico sempre che avrei dovuto fare lo psicologo: bisogna saper creare un buon rapporto con le persone».

Giulio: E gli incontri più belli? Gioia:

«Due, per me: con Elisa, che è una persona autentica, e con Gianna Nannini, che ti guarda negli occhi e capisce se può fidarsi di te. Due donne di grande cultura e sensibilit­à, in cui l’arte si accorda alla persona alla perfezione».

Aneddoti strepitosi? Giulio:

«Ce ne sarebbero tanti, ma nessuno batte la dentiera degli AC/DC. Ma raccontala tu».

«Concerto degli AC/DC al Forum di Assago, 2009, tutti gasatissim­i. A venti minuti dall’inizio arriva l’omino che gira sempre con loro, un signore che da subito la produzione ci aveva detto di assecondar­e, e mi dice: il bassista ha un problema, gli serve la pasta adesiva per la dentiera, sennò non sale sul palco. Dramma. Spedisco 27 runner a cercarla, finché arrivo in produzione con il sacro Kukident. Risolto. Al che Giulio mi fa: dai, andiamo a vedere il concerto. E io: ma di chi? Dei vecchi con la dentiera? Il mito in quell’istante è scomparso. A volte, è meglio non conoscerli».

Gioia:

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