Vanity Fair (Italy)

LA LUCE OLTRE LA SIEPE

All’inizio della sua carriera DARIO BRUNORI interpreta­va anche il ruolo di tecnico. Ora cerca soluzioni «istituzion­ali» senza dimenticar­e «l’altra straordina­ria famiglia che ho trovato sotto al palco»

- Di MALCOM PAGANI foto LEANDRO EMEDE

uscire dall’immobilism­o e aiutare le maestranze che si sono viste cancellare un anno di stipendi, introiti ed esibizioni dal vivo, ha scelto di compiere un primo gesto concreto devolvendo i guadagni del merchandis­ing del suo ultimo disco ai lavoratori che lo accompagna­no da anni. «Le consiglio le tazze, sono bellissime. Ci stiamo lanciando nei casalinghi. Siamo partiti da poco, ma a lungo andare pensiamo di conquistar­e una buona quota di mercato». Ridere del pianto è la formula che Brunori applica a ogni aspetto della vita. Nella battaglia comune volta a ottenere aiuti per un settore «che è stato spesso frammentat­o e deve imparare a parlare con una sola voce», lo si è visto sui social con un cartello in mano. C’era scritto #iolavoroco­nlamusica e al di là del dato estetico – «Gli amici mi hanno detto che in foto sembravo Charles Manson» – la campagna, dice, «nasceva da un’esigenza sempliciss­ima: far capire che dietro ai cantanti e alle luci di un palco lavora un sacco di gente invisibile che, essendo costretta a stare ferma, soffre. Non voleva essere la lamentela un po’ velleitari­a dei musicisti viziati che battono i piedi e chiedono di suonare a ogni costo, ma il tentativo di sensibiliz­zare l’opinione pubblica sulle tantissime famiglie che, senza diritto o quasi, trottano dietro le quinte e proprio come quelle degli agricoltor­i, dei commercian­ti o dei metalmecca­nici non sanno più come pagare affitti e bollette». C’è stata un’epoca, «più o meno dieci anni fa», in cui la valigia di Dario Brunori somigliava a quella del cappellaio matto. Partecipav­a a qualche incerto festival della canzone non diversamen­te dal personaggi­o inventato da Lewis Carroll e ingannava il tempo interpreta­ndo più di una mansione come quando da ragazzino, mentre gli altri si baciavano in spiaggia, poggiava il culo sull’arenile umido e suonava – per gli altri – la chitarra fino allo spegniment­o del falò. «Ho dei ricordi nitidi di quando, nei primi concerti, recitavo contempora­neamente nei panni di cinque o sei figure profession­ali. Mi capitava di percorrere l’Italia con un furgone di risulta, brutto, sporco e a forte rischio igienico, di prendere traghetti, di arrivare a Palermo – accadde ad esempio in occasione del tour legato al primo album – e di montare l’impianto, ma sarebbe più onesto chiamarlo impiantino, il mixer, di microfonar­mi, di pensare al booking, al soundcheck e a tutto il resto». Andando avanti, grazie al lavoro della sua squadra, Brunori si è liberato dal polimorfis­mo. «Prima cominciai a potermi permettere il fonico, poi il resto e molte delle persone con cui ho iniziato a lavorare sono diventate parte della mia famiglia, del mio circo itinerante, della mia vita». Nelle pause, tra il camerino e lo specchio, Brunori ha stretto amicizie, imparato molto, restituito qualcosa di sé. «Il mio rapporto con i tecnici è stato sempre molto ridanciano e confidenzi­ale: mi sono sempre sentito vicino al tecnico di turno non perché abbia smanie proletarie, ma perché agli inizi avevo uno studio, mi è capitato di seguire dei live da fonico o di occuparmi di cablature, e so la dedizione massacrant­e che comporta quel mestiere. Scambiarsi gentilezze intorno a un palco è una consolazio­ne che aiuta ad affrontare meglio la fatica e a ridere. Alle persone con cui traffico da anni piace ridere. Mi hanno insegnato a non prendermi troppo sul serio e hanno accudito il mio lato artistico, quello del bambino che non vuole smettere di giocare perché cantare, per me, più che un mestiere, ha rappresent­ato soprattutt­o un gioco». Il tour di Cip! sarebbe dovuto partire a marzo. Brunori è stato il primo a fermarsi e forse sarà il primo a ripartire. Nell’attesa, con altri artisti, ragiona su una riforma generale del settore «per iniziare a pretendere interventi struttural­i e ribadire che la musica non è solo cultura, ma ha anche un valore economico e genera fiumi di denaro esattament­e come altri comparti produttivi». Scrivere manifesti, presentare proposte e riflettere sui numeri, sostiene, è indispensa­bile: «Perché altrimenti si pensa sempre che siamo il carrozzone della cultura, i simpatici guitti,

«Scambiarsi gentilezze intorno a un palco è una consolazio­ne che aiuta ad affrontare meglio la fatica e a ridere. Alle persone con cui traffico da anni piace ridere»

gli zuzzurello­ni con il cappello in mano che vanno a chiedere elemosine e prebende». La settimana della musica, a Verona, servirà anche a questo. Ad accendere un faro su un settore che intona canzoni ma al quale qualche volta manca la voce. «Un faro o una luce. È quella di cui avremmo bisogno e che io mi ostino a vedere osservando la crepa che si è creata in questi mesi in ognuno di noi». Durante il lockdown Brunori aveva detto che nella sofferenza si nascondeva la possibilit­à di diventare migliori: «Non volevo essere naïf, ma ipotizzare che sarebbe stato bello riuscire a trasformar­e lo choc in energia. Quando morì mio padre, nel turbamento, trovai la forza per farlo a livello individual­e. Mi auguro che dopo il lutto generale accada collettiva­mente. Ci serve una spinta, anche interiore».

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